Votare sul merito della riforma: Nicolò Rocco, i temi caldi e le ragioni del sì
Intervista al Vicepresidente provinciale del Comitato per il Sì
TREVISO-Al silenzio elettorale mancano meno di due giorni, poi i talk show, i convegni e le schiere di improvvisati costituzionalisti da tastiera lasceranno il posto (o così vogliamo auspicarci) al discernimento, alla meditazione degli italiani, in attesa di impugnare la matita elettorale e tracciare il fatidico segno. Poi resterà solo la speranza nella clemenza degli autori dei libri di storia, perché, raccontando questi mesi alle generazioni che verranno, non si soffermino troppo su uno stile tanto aggressivo quanto povero di contenuti da essere riuscito nella soprannaturale impresa di farci quasi dimenticare l’epopea delle presidenziali americane. Perché è vincente, da un punto di vista comunicativo, far leva su oscuri complotti di banche o di ambasciatori americani o su istituti di credito sull’orlo del baratro, sull’Europa cattivissima (che riscuote sempre un certo appeal ma su cui nulla si aggiunge rispetto al testo originale della Costituzione), su dittature fiorentine o su austeri governi tecnici in attesa di essere imposti non si sa bene come, numeri alla mano. Sulle dichiarazioni a base di comitati «killer dei nostri figli» o di fritture di pesce magari soprassediamo in un sussulto di dignità. Sulla qualità della campagna referendaria possiamo permetterci di generalizzare, perché grandi distinguo non se ne sono visti, fatta eccezione per i molti autorevoli professori, il più delle volte ricacciati per le loro spiegazioni, in trasmissioni notturne o di seconda serata, quando non strumentalizzati dal comitato di turno.
È chiaro che esiste una sola fonte attendibile per il cittadino che desideri informarsi ed è il testo della riforma. Questo testo contiene questioni molto complesse perché complessa è la posta in gioco e l’invito è a prendere in mano l’articolato con il confronto fra la vecchia e la nuova versione degli articoli e leggerselo. Continuando ad ascoltare il contributo di tutti gli schieramenti, abbiamo chiesto, allora, al Vicepresidente del Comitato Provinciale per il Sì, Nicolò Rocco, di provare a spiegare alcuni aspetti più tecnici e meno immediati, rispondendo ad alcune perplessità fatte proprie dai comitati per il No, con la promessa, ben accolta, di restare sul merito e dare degli spunti che in qualche modo possano tornare utili a chi legge.
La maggioranza sta ripetutamente sottolineando come sia in cantiere una modifica della legge elettorale finalizzata a introdurre l’elezione diretta dei senatori da parte dei cittadini. Potremmo obiettare che si tratterebbe di una legge ordinaria che un giorno, magari con altre maggioranze politiche, potrebbe essere abrogata.
«Chi utilizza l’argomentazione che altre maggioranze politiche potrebbero cambiare la legge per l’elezione dei senatori dimentica che, se vincerà il Sì, verrà introdotto in Costituzione il giudizio preventivo di costituzionalità da parte della Corte Costituzionale sulle leggi elettorali. Nella legge costituzionale c’è un’espressione chiara: i senatori si scelgono in conformità con la volontà dei cittadini. Se dovesse passare la riforma, la bozza Fornaro-Chiti sull’elezione diretta mi sembrerebbe l’unica conseguenza costituzionalmente logica. Fra l’altro, se posso essere sincero, a me questo dibattito interessa relativamente. Io avrei preferito un modello istituzionale nel quale ad andare al Senato fossero gli esecutivi delle Regioni, in particolare i governatori, non gli esponenti delle assemblee consiliari. Però sappiamo che Forza Italia e la sinistra del Pd hanno spinto per i consiglieri regionali, probabilmente nella speranza di aumentare la propria rappresentanza. Il concetto comunque che la camera alta sia votata indirettamente e sia espressione dei territori sarebbe comunque in linea col modello tedesco e con quello francese».
Il fronte del NO, però, denuncia come un’elezione indiretta dei senatori, così come prevista dalla riforma, possa indurre i partiti a scegliere gli inquilini di Palazzo Madama guardando all’immunità parlamentare di cui i membri del Senato potranno godere.
«L’immunità parlamentare non è retroattiva, si applicherebbe ad eventuali opinioni espresse o ipotesi di reato correlate all’attività da senatore e quindi successive all’elezione dei senatori. Mi sembra che la loro sia una presa di posizione capziosa. Un’argomentazione logica sarebbe potuta essere: “come mai la riforma non ha affrontato una revisione dell’istituto dell’immunità parlamentare?” Se Renzi l’avesse messa sul tavolo probabilmente le opposizioni avrebbero gridato alla deriva autoritaria, dato che oggi chi sta eliminando l’immunità parlamentare per incarcerare i parlamentari avversari si chiama Erdogan e la Turchia non è un modello di democrazia. Ricordiamoci poi che il percorso di riforma è stato iniziato, in uno spirito costituente, assieme a gruppi parlamentari come Forza Italia e Lega Nord, che in passato hanno ricorso a questi strumenti per difendere esponenti dei propri governi. Sono loro ad aver voluto nel 2006 il Porcellum, una legge elettorale che fa nominare dalle segreterie di partito il cento per cento dei parlamentari».
L’abuso del decreto legge, ben oltre la reale sussistenza di requisiti di straordinarietà e urgenza è prassi tristemente consolidata. Il combinato disposto della riforma con la legge elettorale vigente, salvo modifiche, ci consegnerà un’unica Camera che voterà la fiducia, composta per il 55% circa da eletti di una sola lista o di una sola forza politica. Si potrebbe commentare che con questo nuovo assetto il potere legislativo diventerà appannaggio delle direzioni di partito, alle quali sarà sufficiente approvare mozioni che impegnino il governo a presentare decreti da convertire a colpi di fiducia. Di fatto in questo scenario la sintesi, il compromesso fra le diverse sensibilità del Paese, che trova il suo luogo naturale nel Parlamento, si riduce ad una battaglia fra correnti di un partito solo.
«La riforma costituzionale ha fra i suoi pilastri la limitazione della decretazione d’urgenza. L’abuso di decretazione d’urgenza è una stortura, ma è il frutto dell’instabilità parlamentare. Se in parlamento esiste una maggioranza che sia espressione di un programma elettorale, sarà normale che a fare le leggi torni ad essere il parlamento. Se invece la composizione delle due camere è lasciata al caso, come biasimato dalla sentenza della Corte Costituzionale del 2014 -che tutti citano e storpiano ma nessuno legge -, il potere legislativo per ovvie ragioni viene esercitato dal Governo a colpi di fiducia. L’Italicum attribuirebbe a chi vince 340 seggi. Qualcuno ricorda quanti deputati alla Camera aveva la Casa delle Libertà (Berlusconi-Bossi-Casini) nel 2001 con legge elettorale Mattarellum? 368, un numero che con l’attuale Costituzione avrebbe permesso di far scegliere a Berlusconi da solo il Presidente della Repubblica. Fra l’altro non dimentichiamo che la prossima legge elettorale, che sia l’Italicum o l’Italicum modificato, prevederà le preferenze o i colleghi uninominali. I parlamentari non risponderanno al capo partito come volevano Berlusconi e Calderoli, ma ai cittadini o al proprio territorio, dunque saranno più liberi. In ogni caso queste sono considerazioni riguardanti la legge elettorale. Noi il 4 dicembre andremo a votare non per decidere i collegi o se dare un premio di maggioranza alla lista o alla coalizione. Andremo a votare per dire dopo settant’anni che è insensato che Camera e Senato per farsi i dispetti tengano ferma una legge cinquecento giorni, un tempo che in qualsiasi campo lavorativo sarebbe inimmaginabile».
Entriamo nel merito della configurazione del nuovo Senato: come saranno scelti i 21 sindaci-senatori e da chi?
«Sempre secondo il ddl Fornaro-Chiti i consigli regionali voteranno un sindaco in base ad una terna proposta dai consigli delle autonomie locali delle varie regioni».
Se l’intento del legislatore era quello di diversificare le funzioni del nuovo Senato, riconducendolo all’idea originaria di Senato che rappresenti le regioni e le autonomie, come si motiva la scelta di assegnare alle regioni non lo stesso numero di senatori, come nel modello statunitense, ma un numero proporzionato alla popolazione?
«I paragoni con gli Stati Uniti sono sempre scivolosi, il loro è un modello presidenzialista quindi la distribuzione dei poteri è profondamente diversa, così come il principio di rappresentanza. In Italia ci opponiamo all’idea che chi prenda un voto in più possa governare stabilmente, da loro può governare stabilmente chi in termini assoluti prende due milioni di voti in meno del suo avversario come Trump. Il modello a cui si ispira la nostra riforma costituzionale è più simile a quello federalista tedesco. Il Land di Brema ha tre rappresentanti, la Baviera ne ha il doppio. La Lombardia ha 10 milioni di abitanti ed esprime un quinto del PIL nazionale, pur sapendo che l’ultimo non è un indicatore costituzionale, almeno per la popolazione che ha mi sembra logico che la Lombardia pesi di più quando si parlerà di autonomie locali rispetto ad una regione che a meno abitanti di un quartiere di Bergamo».
Una delle più aspre contestazioni al testo della riforma da parte del Movimento Cinque Stelle riguarda la scelta di non inserire in Costituzione il vincolo di mandato. Quali ragioni hanno condotto a questa scelta che conferma quella dei padri costituenti?
«Cerchiamo di essere seri. Quella su cui votiamo è una revisione costituzionale che contiene l’aggiornamento di alcuni meccanismi istituzionali, come il superamento del bicameralismo perfetto, rispetto ai quali c’è un dibattito politico consolidato negli anni. L’introduzione del vincolo di mandato rappresenterebbe la trasformazione di una repubblica parlamentare, che si basa sulla centralità del parlamento e della volontà dei parlamentari che sono espressione dei cittadini, in una Repubblica dei partiti o forse nel loro caso dei capi di partito. Io spero che i parlamentari rispondano alla propria coscienza e ai cittadini che li eleggono, non ai capi che li nominano. Conosco gente che ha cambiato tre gruppi consiliari in due anni e ora fa la campagna sul vincolo di mandato».
La riforma del titolo V del 2001 è stata ampiamente criticata da tutti gli schieramenti, avendo contribuito sensibilmente a gravare la macchina della giustizia di contenziosi legati in massima parte al riparto delle competenze. Se vince il sì, si cancella la potestà concorrente ma, come lo stesso Renzi ha più volte dichiarato, nell’ottica di un ritorno ad un deciso centralismo. La stessa introduzione di una clausola di supremazia (che l’esecutivo non lesinerà di utilizzare ad ogni contrasto con le autonomie locali per imporre dall’alto scelte anche poco gradite a certi territori) segna una certa distanza da quel principio di sussidiarietà fatto di scelte politiche non uguali per tutti ma che si adattino di volta in volta alle esigenze della comunità, che pure è un caposaldo della dottrina sociale della Chiesa e come tale particolarmente caro a un certo elettorato. Quali sono le ragioni per cui oggi lo stato cerca di recuperare competenze prima devolute e perché lo considerate un compromesso accettabile?
«Esistono materie che è logico che tornino fra le competenze dello Stato. Possono la Basilicata o la Liguria decidere le politiche energetiche di una nazione che deve fare i conti con Russia, Cina e Stati Uniti? È normale che per fare la variante del Valico, che oggi fa risparmiare chilometri di code autostradali fra Bologna e Firenze, ci siano voluti anni perché Emilia e Toscana hanno leggi diverse sulle rocce? La Pedemontana veneta si sta dimostrando un esempio virtuoso di autonomia regionale? La clausola di supremazia non è altro che la costituzionalizzazione di un dispositivo nato proprio dopo il 2001, cioè la “chiamata in sussidiarietà”. La sussidiarietà, che rimane un principio dell’ordinamento italiano e soprattutto della cultura sociale e politica italiana, è il concorso dei privati e dei livelli istituzionali più vicini ai cittadini nell’erogazione di servizi di pubblica utilità. Il servizio deve essere erogato da chi è in grado di farlo meglio, ma deve essere un servizio la cui dimensione sia adeguata a quella del soggetto che eroga quel servizio o si occupa di quella competenza. Con la riforma costituzionale si dice semplicemente che lo Stato sarà competente in via esclusiva su alcune materie, la Regione su altre. Ma soprattutto viene introdotto un principio virtuoso agli articoli 116 e 119. Se sei una Regione virtuosa puoi chiedere ulteriore autonomia. Questo è un aspetto su cui anche la Lega ammette la bontà della riforma. Se Zaia chiede un referendum sull’autonomia è perché nel nuovo testo costituzionale ci saranno maggiori spazi per chiedere autonomia».
Il nuovo riparto delle competenze stato-regioni assegna a queste ultime in materia sanitaria solo la «programmazione e organizzazione dei servizi sanitari» in luogo della più ampia «tutela della salute» che attualmente è potestà concorrente e che quindi, al netto delle norme quadro, vede le regioni gestire tutto il settore. Autorevoli costituzionalisti schierati con il NO temono un peggioramento della qualità dei servizi in un ambito che vede il Veneto fra le eccellenze europee.
«L’eccellenza della sanità veneta nasce e si consolida ben prima della riforma del Titolo V del 2001. Le leggi fondamentali che istituiscono il servizio socio-sanitario veneto, le Ulss con la doppia esse al posto di USL e ASL tanto per capirci, sono del 1982 e del 1994, quando l’idea di materia concorrente non esisteva in Costituzione. La Sanità non cambierà più di tanto con la riforma costituzionale e questa è una cosa su cui mi sono scontrato spesso anche con gli amici del Sì che utilizzano questo argomento nelle Regioni in cui la Sanità funziona male. Lo Stato decide i LEA, i livelli essenziali di assistenza, ovvero se la cura di un infarto miocardico o una dialisi siano una prestazione a cui un cittadino ha diritto da Sondrio a Taranto. Poi come programmare l’erogazione di questi servizi continueranno a deciderlo le Regioni: quante aziende sanitarie fare, quanto grandi, se mettere più risorse per la medicina territoriale o per quella ospedaliera, sono ambiti che continueranno ad essere decisi da ogni consiglio regionale o dai tecnici regionali».
Una delle disposizioni transitorie della riforma precisa come, per quanto concerne le regioni a statuto speciale, tutta la nuova formulazione del titolo V con i nuovi equilibri fra competenze statali e regionali non si applicherà fino alla revisione degli statuti sulla base di intese con le regioni interessate. A pensar male si fa peccato, avrebbe detto qualcuno, ma che una regione decida di cedere volontariamente competenze e annesse risorse allo stato avrebbe del miracoloso. Potremmo ragionevolmente attenderci che in alcune regioni come la Sicilia, che pure necessiterebbero forse di un maggiore centralismo, resteranno escluse da questa riforma? Insomma, è vero che la riforma del Titolo V per ora non si applica alle regioni a statuto speciale?
«C’è qualche passo avanti sulle Regioni a Statuto Speciale, certo noi veneti che confiniamo con Trentino e Friuli su questo tema siamo molto più sensibili. Però il superamento del bicameralismo non era procrastinabile. Già l’accordo fra forze politiche ha portato, ad esempio, a dover rinunciare all’idea dei Presidenti di Regione in Senato. Cosa sarebbe successo se agli interessi dei capi-corrente avessimo dovuto sommare la trattativa coi blocchi parlamentari siciliani, sardi friulani, trentini e valdostani? Io avrei voluto una revisione delle Regioni a Statuto Speciale e un Senato coi presidenti di Regione, ma il 4 dicembre non sarò chiamato a votare su questo. Sarò chiamato a decidere fra il pasticcio della materia concorrente e un principio di autonomia responsabile, sarò chiamato a decidere se il Senato sarà la brutta copia della Camera in cui a rappresentare il Veneto sarà gente decisa da Roma come oggi, oppure un’assemblea che si occupa degli enti locali, dove il Veneto sarà rappresentato da chi è alla guida di questi enti locali perché l’hanno voluto i cittadini di quel territorio».