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29 marzo 2024

Vittorio Veneto

Putin ha attaccato! Che succede tra Russia e Ucraina? Ce lo spiega un vittoriese dalla Russia

L’analisi di Manuel Tadiotto che vive tra Vittorio Veneto e Mosca, amministrando un'azienda italo-russa

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russia, ucraina

RUSSIA / UCRAINA - Le ragioni di un conflitto che spaventa il mondo. La ricostruzione storica, le ingerenze dei poteri forti, le istanze delle diverse etnie e l’affossamento del principio di autodeterminazione dei popoli.

Comprendere cosa stia succedendo al confine fra la Russia e l’Ucraina non è cosa semplice per un comune lettore italiano. Il recente acuirsi del confronto politico sta certamente catalizzando l’attenzione mondiale riuscendo a defraudare la pandemia da coronavirus dell'ormai insostenibile monopolio mediatico a essa riservato nel corso degli ultimi due anni. La voglia di capire è tanta anche perché è quasi fisiologica, nell’osservatore medio, la necessità di distinguere i giusti dagli iniqui e, conseguentemente, di schierarsi.

L’intento di chi scrive però non è quello di dissetare tali istinti fisiologici ma bensì quello di informare e cioè di fornire le nozioni basi utili a sviluppare un proprio pensiero, qualunque esso sia. Cercherò quindi, nei limiti dell’emotiva natura umana, di adoperarmi in termini il più possibile imparziali e apolitici.
 

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Cenni storici

Non è possibile comprendere le ragioni di questo confronto internazionale senza fare un salto nel passato e scoprire che anche in questo caso c’è ben poco di nuovo nei consueti corsi e ricorsi storici. Così come è stato per il Vietnam, per la guerra fra Iraq ed Iran e com’è tuttora fra le due Coree, in Medioriente, fra il Pakistan e l’India e per altri innumerevoli contenziosi territoriali, le tensioni politiche e sociali ai confini sono un’eredità lasciataci da pochi potenti, quasi sempre in qualità di colonizzatori che, seduti ad un tavolo, tracciando alcune linee su di un foglio di carta, stabiliscono nuove frontiere e decidono il destino di interi popoli ignorandone la voce. Risulta anche qui indispensabile guardare al passato e scoprire un dato molto importante e che rende ancora più emblematica la tensione politica e sociale nei territori dell’Ucraina orientale: russi, bielorussi e ucraini condividono le stesse origini e sono tutti discendenti della “Rus’ di Kiev” stabilitasi nel corso del IX secolo nei territori dell’odierna Ucraina.

Per centinaia di anni, fino all’epoca dell’Impero russo e poi dell’Unione Sovietica, sono sempre stati governati come un’unica entità statale. Solo con la dissoluzione dell’URSS, avvenuta nel 1991, questi popoli di religione ortodossa, con origini comuni e con tradizioni, cultura e lingue simili, si sono ritrovati divisi in tre distinti stati che avranno poi sviluppi politici differenti. A questo contesto di genesi affine va aggiunto un fatto storico di enorme rilievo, al quale appunto mi riferivo quando parlavo di “potenti che decidono i destini dei popoli”, un episodio avvenuto nel 1954. La cessione della Crimea all’Ucraina. In quell’anno, infatti, il leader sovietico Nikita Chruščёv decise di cedere la Penisola di Crimea, allora territorio della Repubblica Sovietica di Russia, alla Repubblica Sovietica di Ucraina. Una specie di donazione, le cui motivazioni e la cui reale paternità sono ancora oggi tema dibattuto. Ciò che è certo invece, è che né i russi, né gli ucraini, né tantomeno i cittadini della Crimea, vennero mai interpellati.

Questa rilevante cessione di territorio fra le due repubbliche sovietiche è di notevolissima importanza nella comprensione delle attuali recriminazioni territoriali poiché la maggior parte della popolazione di Crimea presentava già allora origini russe, non parlava ucraino e non si sentiva ucraina. La decisione del governo centrale venne pertanto subito osteggiata da gran parte degli abitanti della penisola ma, per quanto entrambe le repubbliche facessero comunque parte di un unico apparato statale, l’Unione Sovietica, tale scelta non comportò cambiamenti di rilievo nella routine quotidiana del cittadino, da una parte o dall’altra rimanevano comunque cittadini sovietici.

Le cose però cambiarono con la dissoluzione dell’URSS, la conseguente costituzione delle varie neo-repubbliche e la nascita di uno Stato sovrano ed indipendente ucraino. La Crimea improvvisamente si ritrovava parte di un paese che la maggioranza della popolazione, di etnia russa, non considerava proprio. Questa transizione politica generò forti malumori che portarono subito a dei tentativi di autoproclamazione che però persero impeto a seguito di vaste concessioni, in materia di autonomia, da parte del governo di Kiev e che portarono, nel 1995, alla proclamazione della Repubblica autonoma di Crimea in Ucraina.

Un altro aspetto di enorme importanza che conseguì allo scioglimento dell’immenso stato sovietico fu, che gran parte delle 15 repubbliche sorte dalla relativa frammentazione si ritrovarono sul proprio territorio l’eredità nucleare dell’URSS. Ciò ci porta direttamente ad un altro episodio che viene costantemente sollevato, sia dall’Ucraina, sia dalla Russia, nell’accusare il proprio rivale di contravvenire agli accordi precedentemente stipulati. Il “Memorandum di Budapest sulle garanzie di sicurezza”. Firmato nel dicembre del 1994, è un accordo sulla cui base l’Ucraina si è impegnata a cedere alla Russia tutto l’arsenale nucleare ereditato dall’Unione Sovietica.

Va aggiunto che oltre all’Ucraina, anche tutte le nuove repubbliche ex-sovietiche in possesso di armi nucleari stipularono accordi per cedere l’intero arsenale alla Russia. Questo accordo trovò inizialmente i favori di entrambe le parti, poiché da un lato esonerava la neo-repubbliche da costi insostenibili di mantenimento delle armi e dall’altra, assicurava alla Russia la possibilità di mantenere il proprio status di superpotenza militare. Venne sostenuto anche dagli USA e dal regno Unito in quanto avrebbe ridotto il numero di potenze nucleari e la pericolosa distribuzione di armi atomiche sul pianeta. In cambio dell’adesione al memorandum di Budapest, la Russia si impegnava a rispettare l'indipendenza e la sovranità ucraina entro i suoi attuali confini e ad astenersi da qualsiasi minaccia o uso della forza contro l'Ucraina.

Dopo queste premesse storiche è fondamentale comprendere il contesto politico, sociale ed economico di entrambi i paesi che ha portato, già nel 2014, alla guerra del Donbass e all’annessione della Crimea da parte della Russia.

La situazione in Ucraina

L’Ucraina, prima dell’annessione della Crimea era popolata da circa 44 milioni di persone fra i quali alcune minoranze etniche di cui la più importante, quella russa, contava circa 8 milioni di cittadini. Questa etnia russofona era e permane concentrata prevalentemente nella penisola di Crimea e nelle regioni dell’Ucraina Orientale, il Donbass, dove in alcune di queste provincie rappresenta più del 70% della popolazione. Nelle varie consultazioni susseguitesi nel corso degli anni, i candidati filorussi hanno sempre ricevuto la maggior parte dei voti dai distretti sudorientali del paese, mentre i candidati europeisti han sempre ottenuto i maggiori consensi, dai bacini elettorali delle regioni centro-occidentali.

Lo stesso Leonid Kuchma, presidente per due mandati consecutivi, dal 1994 al 2005, che ha mantenuto un’agenda favorevole alla vicinanza politica con la Russia, ottenne, in entrambe le elezioni, più della metà dei propri voti in quelle provincie con netta maggioranza etnica russa. Con le elezioni del 2004, dopo quindi un lungo periodo di stabilità e con lo scoppio della Rivoluzione Arancione, inizia nel paese una fase, ancora in corso, di forte contrapposizione politica fra movimenti filorussi, estrema destra nazionalista ed europeisti. Nell’autunno di quell’anno, milioni di persone scesero in piazza per contestare i risultati elettorali delle presidenziali, condizionati da forti ingerenze sia russe sia occidentali e da palesi brogli che, in un primo momento, avevano permesso la vittoria all’erede politico designato da Kucma, l’allora primo ministro Victor Janukovyc.

Le falsificazioni vennero riconosciute dalla Corte Suprema ed il secondo turno elettorale venne ripetuto eleggendo vincitore il candidato filoccidentale Juscenko. Con la nuova presidenza compare quindi in Ucraina una nuova narrazione politica fortemente europeista. I movimenti di estrema destra, vicini al governo, iniziarono ad introdurre nel dibattito politico note fortemente russofobiche, di disprezzo nei confronti della Russia, della lingua russa e dei russi stessi. Avviene quindi un qualcosa di palesemente inopportuno, in un paese con una numerosa minoranza etnica, per di più concentrata in alcune regioni di confine, si avvia infatti una politica di discriminazione della stessa.

Questa nuova linea, supportata dall’occidente e dagli USA, ottenne automaticamente l’inevitabile conseguenza di risvegliare i sentimenti irredentisti delle minoranze russe e di indispettire Mosca la quale decise di ricattare l’Ucraina aumentando i prezzi del gas. Nel 2006 l’Europa si scontrò quindi con la prima crisi del gas, risoltasi pochi mesi dopo a seguito di un accordo a lungo termine fra governo ucraino e la russa Gazprom. Dopo quindi un mandato problematico, ricco di contrasti e scandali, fra i quali il famoso attentato alla vita per mezzo di un avvelenamento da diossina imputato ai servizi segreti russi, il presidente Juscenko riceve poco più del 5% alle successive elezioni presidenziali del 2010, che eleggono come vincitore il grande sconfitto alla consultazione precedente, Victor Janukovyc.

Il mandato del presidente vicino al Cremlino avviò un periodo di caos politico ancor peggiore, sul governo si abbatterono una serie di sospetti, alimentati anche dall’improvviso arricchimento della famiglia del presidente, con figli e parenti prossimi che in breve tempo diventarono miliardari. Il rifiuto alla stipula di un accordo di associazione dell'Ucraina all'Europa e l’approvazione di un prestito russo concesso dal Presidente Putin, che però legava ancora di più il Paese alla Russia, esasperarono al limite gli animi della parte di popolazione, la maggioranza, più legata culturalmente all’occidente. In un crescente e generalizzato malumore, verso la fine del 2013 iniziarono a verificarsi varie proteste che porteranno poi all’occupazione della piazza Maidan a Kiev, protesta chiamata anche come Euromaidan.

Nel Febbraio del 2014 al culmine delle rivolte, con i manifestanti che assalgono i centri del potere e un drammatico bilancio di più di cento morti, dovuti agli scontri fra polizia e rivoltosi, iniziano le prime defezioni fra le forze dell’ordine che si rifiutano di sparare sulla folla. Il partito del presidente comincia così a sgretolarsi, perdendo i propri parlamentari, in parte passati all’opposizione ed in parte fuggiti all’estero. Lo stesso Janucovyc senza più sostegno politico in patria né poteri effettivi, fugge in esilio in Russia. Il primo marzo si rivolgerà invano a Putin chiedendo l’intervento delle forze armate russe in Ucraina per ristabilire l’ordine. Per questo e numerosissimi altri fatti verrà poi giudicato in decine di processi e condannato dal tribunale di Kiev per alto tradimento.

L’Ucraina è quindi nel 2014, de facto, un paese in una drammatica crisi politica, economica e sociale. Un paese governato da una classe dirigente che per dieci anni, ora da una parte ed ora da quella opposta, fra corruzione e incapacità, ha saputo unicamente soffiare sul fuoco delle tensioni interculturali, portavoce di una narrazione che, con incredibile costanza e in un paese a grave rischio di tensioni sociali, è rimasta concentrata unicamente sulle relazioni con la Russia piuttosto che sullo sviluppo economico, sulla distribuzione del lavoro e sulla coesione sociale.

La guerra – L’annessione della Crimea

Con tale scenario, nel 2014 le tensioni raggiungono i massimi storici. La crisi economica, il caos politico e l’elezione del nuovo presidente Petro Poroshenko, cresciuto politicamente nell’entourage di Juscenko e quindi anch’egli europeista convinto, esasperarono gli animi nelle province a maggioranza etnica russa dove iniziarono i primi disordini. A febbraio, nell’est del paese e nella penisola di Crimea la gente cominciò a scendere in strada chiedendo la separazione dallo Stato Ucraino. In pochi giorni si passò quindi all’azione e le forze filorusse, sostenute da centinaia di soldati dell’esercito russo in incognito, iniziarono a prendere il controllo della Crimea.

Nelle fasi iniziali dell’occupazione, il governo russo negò sempre qualsiasi partecipazione attiva, ammettendo solo in seguito che fra i rivoltosi vi erano i propri militari. In pochi giorni la Crimea fu sotto il controllo russo e l’11 marzo venne indetto un referendum sull’annessione alla Federazione Russa che ottenne, secondo gli organizzatori, un risultato a favore quasi plebiscitario. Il 17 marzo, il parlamento crimeano dichiarò l'indipendenza dall'Ucraina e chiese di aderire alla Russia. Il Presidente Putin, qualche giorno più tardi, dichiarò la Crimea territorio della Federazione appellandosi al principio di autodeterminazione.

Tale principio non venne riconosciuto dal resto del mondo, per il quale la Crimea è ancora territorio ucraino. Bisogna però sottolineare che è innegabile che la maggioranza della popolazione crimeana fosse e sia tutt’ora di etnia russa e favorevole all’annessione della penisola a Mosca. La questione è che le operazioni militari e la consultazione stessa, sono avvenute in violazione dei principi costituzionali ucraini, il referendum si è svolto con le strade occupate dai carri armati e con i soldati russi a presidiare i seggi in un regime di forte condizionamento. In ogni caso lo stesso principio di autodeterminazione è stato in passato strumentalizzato a fini personali da tutte le parti coinvolte, sia dalla Russia, sia dagli USA sia dall’Europa.

Bastano due esempi recenti per rendere evidente quanto la retorica del principio di autodeterminazione sia in realtà pura ipocrisia al servizio meramente utilitaristico di chi la invoca. Il Kossovo, anch’esso in pieno diritto di autodeterminazione, con Europa ed America favorevoli poiché a danno della Serbia, paese amico della Russia, e quest’ultima per ovvi motivi, contraria. O la Cecenia, le cui motivazioni erano ancora più valide di quelle della popolazione del Donbass. Un popolo che si è ritrovato dapprima inglobato nell’Impero Russo, poi nell’Unione Sovietica e poi nella Federazione Russa, ma che russo non si è mai sentito. Un popolo con religione, storia, lingua e cultura differenti, che durante la seconda guerra mondiale aveva addirittura appoggiato l’esercito invasore tedesco nella speranza di potersi svincolare da Mosca.

Putin in quel contesto mosse però il proprio esercito non tanto per garantire l’espressione di quel principio al quale ora tanto tiene bensì per bombardare e annientare un popolo che chiedeva indipendenza. Così come in Crimea, anche in Donbass è molto probabile che la maggioranza della popolazione voterebbe a favore dell’autogoverno, e probabilmente anche dell’annessione alla Russia, questo fa comodo a Putin che pertanto lo sostiene, ma non fa comodo all’Europa e non fa comodo agli USA.

Un’ipocrisia generalizzata nella quale molto bene si destreggiano proprio gli USA che continuano ad invocare il nobilissimo principio secondo cui una nazione come l’Ucraina abbia il diritto di poter decidere con chi allearsi, omettendo però di aver più volte in passato rassicurato la Russia di non voler estendere la NATO ad est e soprattutto dimenticando, che in una situazione assolutamente simile a quella in cui si trova Mosca ora, impedirono ad un paese libero come Cuba di esercitare la propria alleanza militare con l’URSS e di collocare nel proprio territorio armi sovietiche, tentando più volte di invaderlo e di rovesciarne il governo.

In tutti questi casi chi ci rimette è la popolazione civile, così come in Kossovo, così come in Cecenia, i popoli sono carne da macello sacrificata all’altare degli interessi di Stato.

La guerra – L’indipendenza del Donbass

Parallelamente agli avvenimenti di Crimea anche in Donbass quindi, agli inizi del 2014, cresce la tensione. La gente di etnia russa, insoddisfatta per lo stato generale delle cose iniziò a scendere in strada. Lo sviluppo delle cose qui ha però un destino diverso, il Donbass è un’area molto più grande della Crimea, all’interno della quale, anche se in minoranza, vivono milioni di ucraini. I primi scontri avvennero quindi fra i civili, spesso anche fra vicini di casa e persone in precedenza amiche, poi iniziarono i primi spari, i primi morti, gli assalti ai palazzi governativi e con l’inevitabile intervento dell’esercito centrale inizia una vera e propria battaglia sul territorio.

Ad oggi, il Donbass è diviso da un confine invisibile, ad ovest vi sono le aree controllate dall’esercito ucraino e ad est quelle dalle milizie filorusse, area nella quale si sono formate due repubbliche autoproclamatesi con capoluogo nelle due più importanti città della regione, Luganck e Doneck. La Russia, nonostante un ruolo di prima linea con finanziamenti, supporto politico e militare ha preferito non riconoscere da subito tali repubbliche, attribuendone quindi un valore strategico differente rispetto alla Crimea.

Il riconoscimento è avvenuto solamente ora, con il recente acuirsi delle tensioni in Donbass. Con tale riconoscimento e con il successivo accordo di cooperazione ed aiuti, in Donbass entra ufficialmente l’esercito russo. Questa guerra, ad oggi, ha causato circa 15mila morti, di cui più di 3mila sono civili inermi. Impressionante il numero di profughi. Secondo le stime ufficiali, più di un milione e mezzo sono i cittadini che, da entrambi le parti, hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni.

Gli accordi di Minsk

Nel 2014 per regolare un cessate il fuoco duraturo le parti concordano per un incontro avviando un processo denominato accordi di Minsk. In seguito, dal 2015, parteciperanno anche Francia, Germania e Russia che con l’Ucraina, formeranno il cosiddetto “quartetto Normandia”. Tali accordi prevedevano principalmente il ritiro di tutte le armi dal Donbass, il ripristino dei confini di Stato e l’avvio di un processo che potesse dare maggiori autonomie ai territori russofoni. Niente o quasi niente di questo è mai stato fatto poiché l’Ucraina non vuole riconoscere autonomie maggiori, prima che il territorio del Donbass venga disarmato, mentre la Russia al contrario pretende che prima si adempi alle disposizioni politiche e dopo a quelle militari.

Il recente acuirsi delle tensioni ed il riconoscimento delle neo-repubbliche separatiste

A febbraio di quest’anno l’attenzione mediatica mondiale è tornata a concentrarsi sul Donbass a seguito di una nuova fase di dichiarazioni politiche molto tese, da entrambi i paesi. Gli USA hanno iniziato un’enorme operazione di supporto militare all’Ucraina ed ai paesi alleati dell’Est Europa e del Baltico, in risposta ad una massiccia mobilitazione dell’esercito russo verso i confini con l’Ucraina, circa 150mila soldati, mossi sia dal proprio territorio sia da quello bielorusso. Le ragioni di una tale ed improvvisa crescente tensione, non sono molto chiare. La situazione era in una fase di stallo da circa 7 anni, con Kiev e Mosca che si accusavano l’un l’altro di non attuare gli accordi di Minsk e con qualche colpo di mortaio sparato ora da una parte ed ora dall’altra.

La Russia ritiene inaccettabile che l’Ucraina aderisca alla NATO, ma è anche vero che non vi sono stati alcuni sviluppi in tal senso negli ultimi mesi che possano spiegare un improvviso e massiccio dispiegamento di forze russe. La sensazione è quindi che Putin abbia scelto una mossa disperata, una decisione tutta sua, personale, probabilmente anche sconsigliata dal proprio stato maggiore. La storia in fondo è la grande maestra nella comprensione dei conflitti ed è probabile che Putin, isolato in politica estera, con un’economia in stagnazione oramai da 10 anni ed un consenso popolare in continuo calo, abbia pensato di giocare la carta del nazionalismo. In un discorso a rete unificate, lunedì 21 febbraio, si è rivolto alla nazione per annunciare il riconoscimento da parte della Federazione Russa, delle due repubbliche separatiste in Donbass.

Il riconoscimento era ovviamente solo propedeutico alla mobilitazione dell’esercito russo in tali regioni, legittimata da un trattato di cooperazione e assistenza militare che è stato stipulato con le due repubbliche subito dopo l’annuncio. L’esercito di Mosca è entrato quindi in territorio ucraino e nei sistemi di informazione russi sono cominciate improvvisamente a rimbalzare notizie su attentati terroristici e attacchi alla popolazione inerme per mano ucraina. Difficile stabilire la verità ma il dubbio che si stia unicamente cercando un pretesto per giustificare un’offensiva contro l’esercito ucraino, pare molto lecito. Nel discorso alla nazione, Putin ha incolpato Lenin dell’esistenza dell’Ucraina e ne ha messo in discussione il diritto ad essere una nazione libera ed indipendente.

Ha incolpato lo stesso “povero” Lenin, il cui corpo tiene lì con tutte le sue “colpe”, proprio davanti agli uffici del Cremlino nel mausoleo a lui dedicato, privato di una dignitosa sepoltura ed impagliato come un fagiano, in mostra a centinaia di bambini e scolaresche ogni giorno. Putin, ha dichiarato che non esiste un’Ucraina ma esiste una grande Russia, mettendo così in discussione anche la sovranità di altre repubbliche ex-sovietiche. La storia dice però il contrario, dice che mentre a Kiev nasceva il nuovo grande stato slavo, la Rus’ di Kiev, Mosca non esisteva ed al suo posto c’era solo un bosco di betulle.

Queste boriose esternazioni e il richiamo ad un nuovo “panrussismo” non possono che riportare i nostri pensieri agli anni ’30 del secolo scorso. Le analogie sono tante, anche in quel caso ci fu un’iniziale annessione quasi consensuale dell’Austria, così come in questo caso è stato con la Crimea, per poi passare alla retorica pangermanica ed ai “tedeschi dei sudeti” in Cecoslovacchia e poi ancora alla Polonia. Putin si è già preso l’Ossezia del Sud in Georgia, la Crimea in Ucraina ed ora punta al Donbass ed alla Transnistria in Moldovia.

La situazione in Russia

Vladimir Putin è al potere in Russia dal 2000, più di 21 anni di leadership indiscussa con un’ampia maggioranza parlamentare e poteri quasi assoluti. Una stabilità politica mai nemmeno scalfita, raggiunta con abili mosse politiche e la distribuzione del potere in mani amiche e fidate. La Russia che ha ereditato dal suo predecessore era sicuramente un Paese in condizioni sociali ed economiche di gran lunga peggiori di quelle in cui si trova ora sotto il suo governo. Questi sono dati innegabili. Sono due Russie molto diverse in tantissimi aspetti.

La Russia di Eltsin proveniva da una transizione politica, ma soprattutto economica drammatica. L’industria era al collasso, le materie prime rendevano molto meno e il paese era economicamente dipendente dagli aiuti stranieri. In politica estera le relazioni erano buone sia con l’Europa, sia con gli USA e in politica interna il controllo del paese era tutt’altro che accentrato, con una serie di persone, una specie di club elitario al comando, composto da parenti e oligarchi spregiudicati, che acquisendo il grosso dell’industria del paese, grazie ad un’enorme operazione di privatizzazioni e svendita dei beni statali, avevano accumulato enormi ricchezze.

Nella Russia di Eltsin però vi è sempre stato spazio per il pluralismo, l’opposizione aveva voce, la magistratura poteva anche muoversi contro il potere e le televisioni a trasmissione nazionale potevano criticare il governo. Insomma, se non fosse per il fenomeno della corruzione, forse unico vero elemento di continuità, parliamo di due Russie davvero differenti, quasi diametralmente opposte.

Oggi, nella Russia di Putin, il PIL pro-capite è più del doppio dell’era Eltsin e l’economia è cresciuta fino a 10 volte tanto, con l’apice raggiunto nel 2013 e mai più ripetuto. Considerata la vastità del territorio con enormi quantità di risorse naturali e materie prime e la popolazione di 140 milioni di abitanti, è comunque un risultato insoddisfacente se paragonato per esempio anche all’Italia, la quale con risorse naturali nemmeno paragonabili e con meno della metà degli abitanti, presenta un PIL addirittura superiore ed un PIL pro-capite che è quasi tre volte maggiore.

L’aspettativa di vita con Putin è certamente cresciuta ma rimane a livelli sorprendentemente bassi, inferiori a molti paesi africani e del terzo mondo, occupando la novantaseiesima posizione fra le nazioni del pianeta. Una reale opposizione parlamentare non esiste e quella extraparlamentare viene perseguitata giuridicamente. Qualsiasi persona esprima pubblicamente critiche nei confronti del governo viene etichettato come agente esterno al soldo dell’occidente e classificato come tale.

Quei pochi organi di informazione non allineati ancora operanti, vengono classificati come agenti stranieri ai quali non è consentito pubblicare niente senza la premessa “questo messaggio è stato creato e diffuso da un mezzo straniero di informazione di massa con la funzione di agente straniero”. Ad ogni consultazione politica si presentano irregolarità con accuse diffuse di brogli ed il sospetto, che le reali cifre siano altre, rimane lecito. In Russia sono assenti i basilari ammortizzatori sociali nel settore del lavoro, non esiste il TFR e non esiste la cassa integrazione, la pensione media è di 16mila rubli, meno di 200 euro.

La ricchezza e le opportunità di lavoro sono notevoli ma concentrate prevalentemente nella capitale e a San Pietroburgo in una ragguardevole disparità con il resto del paese. Nelle TV pubbliche è preclusa qualsiasi forma di critica, Putin è una figura intoccabile. La magistratura è sotto il controllo del governo e si muove per casi politici solo con il beneplacito del Cremlino.

La sensazione è che in 21 anni di potere assoluto ed incontestabile si sarebbe potuto fare molto di più. Lo sa anche Putin al quale pare siano restate ben poche carte da giocare in politica estera, quali il ricatto del gas e lo spauracchio delle armi nucleari, con una retorica molto simile a quella di un nostalgico sulla via del tramonto. Anche le recenti manovre militari con la mobilitazione di una gran numero di mezzi e di risorse umane in Donbass non saranno sostenibili a lungo da un’economia che è molto più debole di quanto si possa pensare e che andrà incontro ad una nuova inevitabile ondata di sanzioni internazionali.

La Russia non è l’Unione Sovietica, non è una potenza politica ma un paese isolato da rapporti diplomatici ai minimi storici con la maggior parte delle principali nazioni del pianeta e non è nemmeno una potenza economica, con un’economia che da 10 anni non cresce più come prima, costretto a scendere a patti con un vicino molto scomodo, la Cina, il cui prodotto interno lordo è oramai 10 volte quello della Federazione Russa e che in un solo anno riesce ad aumentare il proprio PIL di una quota pari all’intero PIL russo.

La posizione della Cina

I recenti incontri fra Putin e Xi Jinping fanno presagire un accordo di reciproca assoluzione per l’invasione del Donbass da parte del primo e per l’invasione dell’isola di Taiwan da parte del secondo. Su quest’ultimo scenario, che pare oramai solo una questione di tempo, è immaginabile una reazione infinitamente più pacata da parte dell’occidente e questo perché la Cina, al contrario della Russia è una potenza economica, politica e militare.

Negli ultimi 10 anni, parallelamente ad una crescita verticale della propria economia il governo cinese ha potenziato enormemente il proprio esercito e ha lavorato a voce bassa conquistando con grande astuzia territori e mercati strategici e tessendo una fitta rete di relazioni diplomatiche. Le ultime dichiarazioni del presidente cinese, rilasciate al Segretario di Stato USA dopo il recente riconoscimento da parte del Cremlino delle repubbliche separatiste, confermano una linea in politica estera poco schierata con un richiamo molto generico al buon senso.

Il diritto internazionale, il grande sconfitto

Tutto quello che sta avvenendo nel mondo palesa due grandi sconfitti. Due principi fondamentali. Il primo è il diritto di una nazione sovrana di poter essere unica artefice del proprio destino senza subire ingerenze esterne. Un diritto che rimane ancora oggi un astratto poichè la storia insegna che uno Stato che non abbia forza economica, politica o militare, non può godere di sovranità.

Il secondo principio che esce sconfitto è il diritto di un popolo all’autodeterminazione. Un principio ben definito sulla carta ma che nella pratica si scontra con gli interessi delle parti e si raggiunge quasi unicamente con l’uso delle armi.

di Manuel Tadiotto


 

 


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