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25 aprile 2024

Italia

Il Ppi venti anni dopo, le giuste intuizioni

Relazione di Pierluigi Castagnetti

| Pietro Panzarino - Vicedirettore |

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| Pietro Panzarino - Vicedirettore |

Il Ppi venti anni dopo, le giuste intuizioni

Il Partito Popolare Italiano (PPI), nato il 18 gennaio 1919 e ispirato alla dottrina sociale della Chiesa Cattolica, fu fondato da Luigi Sturzo, subito dopo la fine della Prima Guerra Mondiale. Il PPI rappresentò per i cattolici italiani il ritorno organizzato alla vita politica attiva, dopo lunghi decenni di assenza a causa del non expedit conseguente alle vicende dell'unificazione nazionale. Alla fine della cosiddetta Prima Repubblica, Mino Martinazzoli rifondò il Partito Popolare Italiano. Il suo ultimo segretario, Pierluigi Castagnetti (in foto), sabato 18 gennaio, a 20 anni dalla costituzione, nel corso del convegno "A quanti hanno passione civile" ha svolto la seguente relazione, che, grazie alla sua disponibilità, pubblichiamo integralmente. Anche ieri a Caltagirone, città in cui nacque Luigi Sturzo, si è svolto un altro convegno sul medesimo tema.

Pietro Panzarino

 

Il Ppi venti anni dopo, le giuste intuizioni

 

Quel "ricominciamento" fu il primo vero difficile tentativo di costruire una presenza politica cristianamente ispirata dopo il concilio Vaticano II

Oggi ricordiamo un anniversario che ha due significati: quello della fine, seppur non formale, dei cinquant’anni di vita della Democrazia cristiana e quello dell’avvio del tentativo di riproporne il valore e la cultura attraverso un partito nuovo che prendesse il nome del primo partito dei cattolici italiani, il Ppi. Sono due significati che si sovrappongono.

Bisogna situarsi in quel tempo per comprendere in profondità ciò che è avvenuto allora e porsi fuori da quel tempo per giudicarlo: è la strada che io percorrerò in questo intervento.

In effetti la Dc non è formalmente finita quel giorno. Potremmo dire che da anni si era registrato un logoramento dei suoi parametri vitali sicché si trovò a incrociare l’esplosione di quella crisi etica della politica italiana che le dette un colpo decisivo, praticamente già esausta, oltreché impreparata.

Ricordo il clima di quel 18 gennaio 1994 in questa sala, un misto di drammaticità e ineluttabilità. C’era consapevolezza che non stava finendo semplicemente un partito (la storia successiva ci ha dimostrato che i partiti possono morire e rinascere senza lasciare troppi rimpianti nè provocare grandi aspettative), ma rischiava di finire una storia, il senso di una storia, una cultura politica che era diventata nei decenni tradizione e insieme cultura e senso dello stato.

Il tentativo fu quello di salvare il significato profondo di quella storia, sacrificando la forma partito che pure aveva avuto un ruolo unico nella costruzione della democrazia italiana e nella rappresentazione politica della “cattolicità”, ma che non era più in grado di continuare a farlo.

Quel “ricominciamento”, come lo chiamava Martinazzoli, fu il primo vero difficile tentativo di costruire una presenza politica cristianamente ispirata dopo il concilio Vaticano II e il conseguente dovere per i laici cattolici dell’assunzione piena della responsabilità del loro impegno politico. Ma fu anche il primo tentativo di costruzione di un partito dopo l’ottantanove europeo, cioè dopo la definitiva morte del comunismo “reale” e l’abbattimento di quel muro che insieme all’Europa aveva diviso profondamente proprio il nostro paese.

Il comunismo, il legame del comunismo italiano con quello sovietico in particolare, avevano rappresentato una delle ragioni più importanti di quel largo consenso che aveva fatto per cinquant’anni della Dc il primo partito italiano. Purtroppo, e il diario di Gabriele De Rosa La transizione infinita lo documenta, quell’impresa venne definita con precisione nell’intenzione, ma fu realizzata con un certo grado di confusione e di impreparazione.

La scommessa, ardua e inevitabile, riuscì solo in parte. Ebbe sicuramente il merito di tenere unito il gruppo dirigente storico della Dc: basti pensare che nel gruppo dei Popolari al senato della repubblica, erano presenti in vario modo e in tempi non sempre coincidenti Giulio Andreotti, Emilio Colombo, Gabriele De Rosa, Amintore Fanfani, Rosetta Jervolino, Nicola Mancino, Oscar Luigi Scalfaro, Paolo Taviani.

In secondo luogo con quella operazione, attraverso la Conferenza programmatica preparatoria del luglio 1993 e il lavoro di varie commissioni che definirono il programma come elemento centrale – in un ottica sturziana – del nuovo partito, vennero fatte importanti ricapitolazioni e attualizzazioni del pensiero politico cristianamente ispirato, imperniate su questi punti:

a) Una visione moderna dell’europeismo che, mentre richiamava il contributo dei padri fondatori, dava nuove motivazioni alla filosofia del federalismo europeo, anche attraverso posizioni politiche che risultarono decisive durante il primo governo Prodi per superare ogni incertezza intorno all’obiettivo dell’ingresso nell’Unione monetaria;

b) La riconferma dell’interpretazione del fine sociale del mercato. Fu proprio la cultura dell’”economia sociale di mercato” che diede respiro alla nostra opposizione a una deriva mercatista quale era rappresentata dal governo di centrodestra che nacque dopo le elezioni politiche del 1994;

c) L’impegno a evitare una deriva laicistica delle culture politiche post-ideologiche, come purtroppo è accaduto in altri paesi segnati da una forte presenza dei cattolici: alludo alla Spagna, alla Francia, alla Germania, e ai paesi del Benelux;

d) Un contributo per lo sviluppo di un nuovo umanesimo capace di conformare e dare senso anche alla politica. «La politica è importante ma la vita lo è ancora di più», era solito dire Martinazzoli. E poi, il “senso del limite”, come valore in sè e come specifico valore politico in un tempo che continua ad essere segnato dalla illimitatezza degli spazi occupabili oltreché dalla politica, dalla ricerca scientifica e dall’evoluzione dei costumi;

e) L’impegno a riorganizzare il paesaggio politico italiano in modo da liberarlo da cascami ideologici e da partiti senza radici ideali e storiche e, altresì, in modo da non pregiudicare la sopravvivenza della cultura cattolico democratica anche sotto forme diverse da quelle propriamente partitiche. Per fare questo era necessario aiutare la sinistra storica italiana, arrivata in ritardo agli appuntamenti della crisi della sua tradizione culturale e della sua storia, a darsi un ancoraggio a una cultura di governo definitivamente democratica, moderna e pluralistica.

Possiamo dire che tutti questi obiettivi sono stati centrati al punto che in gran parte sono diventati patrimonio condiviso della politica italiana. In una famosa lettera al leader britannico Clement Attlee, De Gasperi disse che, realizzati tali obiettivi, si sarebbero esaurite le ragioni storiche della necessità dell’unità politica dei cattolici italiani.

Ma è doveroso riconoscere i fallimenti ed esaminare le ragioni degli obiettivi non raggiunti.

Non riuscimmo a trasmettere a buona parte dell’elettorato della Dc le ragioni della necessità di un sostegno a una nuova iniziativa che intendeva sottrarsi all’ineluttabilità di un bipolarismo da noi allora giudicato politicamente non maturo.

Così come non siamo riusciti a trasmettere a una buona parte dell’elettorato cattolico le ragioni dell’opportunità di ritrovarsi, sia pure su basi nuove, in una iniziativa di larga convergenza elettorale.

Ci sono state sicuramente le nostre inadeguatezze di gruppo dirigente, ma ci sono state non di meno alcune condizioni storiche ineludibili.

Innanzitutto, come dicevo,l’applicazione per la prima volta di un sistema elettorale maggioritario che poneva in difficoltà soprattutto l’elettorato cattolico, educato più alle ragioni della convergenza che a quelle della divaricazione e della contrapposizione. Appena approvata la nuova legge elettorale Paolo Taviani sentenziò: «È la fine della Dc!».

I cattolici poi, già all’inizio degli anni novanta erano diventati “minoranza sociologica” nel paese, e se si è minoranza nel paese non è possibile essere maggioranza in parlamento.

L’esplosione poi della crisi morale della politica, che aveva investito quasi la totalità del sistema, per il movimento dei cattolici democratici assunse una dirompenza pressochè incontenibile. La questione morale era grave per tutti i partiti, ma diventava “scandalo” per un partito a ispirazione cristiana.

Ricordo ancora quando, alla fine del 1993, una società di ricerche sociali che aveva organizzato per conto della Dc una serie di “focus group” in molte città del paese, riferendoci dell’esito uniforme di questi focus, ci preparò ad una durissima sconfitta elettorale: «In ogni focus è uscito il sostantivo “tradimento” e, quando esce questa parola, c’è inevitabilmente la separazione, la separazione definitiva di un elettorato che non è disposto a perdonare».

Furono giorni convulsi, di cui molti hanno perso memoria, giorni in cui la disperazione prese molti tra i maggiori dirigenti del partito, indotti non di rado a proposte semplicemente insensate e impraticabili.

In tale clima la scommessa fu quella di un nuovo inizio, di un «rinnovamento senza rinnegamento», come diceva Martinazzoli, di una sfida a chi invece voleva un rinnegamento totale (penso alla proposta provocatoria e indecente che Berlusconi fece a Martinazzoli di una rinuncia elettorale unilaterale da parte della Democrazia cristiana a favore del suo nuovo movimento politico in cui non sarebbe stato candidato nessuno dei vecchi dirigenti Dc, fatta eccezione per Martinazzoli stesso).

Nacque così quel primo tentativo di ricostruzione di un movimento politico aconfessionale ma a ispirazione cristiana dopo il concilio Vaticano II, che aveva giustamente riposizionato la chiesa rispetto alla politica, ribadendo un principio che era presente sin dal Partito popolare di Sturzo, che la religione cioè è universale mentre la politica è parziale e che i grandi valori religiosi non possono essere trascinati nell’usura delle lotte politiche.

«Noi sappiamo bene che le questioni della politica, le difficoltà della politica, riguardano chi fa politica. Nessun’altro può risolvere per noi questi problemi», dirà proprio Martinazzoli in quel 18 gennaio 1994. Ciononostante nelle elezioni del 1994, con la lista “Patto per l’Italia” raggiungemmo un consenso di quasi il 17% e, nelle successive elezioni europee, in cui ci presentammo da soli, dell’11%. Risultati che descrivono una netta sconfitta, ma non una insignificanza, un quoziente da cui si sarebbe potuti ripartire se fossimo restati uniti e qualcuno di noi non avesse ceduto, con qualche mese di ritardo, alla logica della divisione e alla seduzione tardiva del bipolarismo. Una scelta che obbligò la parte restante del Partito popolare, che rappresentava la maggioranza del consiglio nazionale del partito, ad affrettare una decisione analoga e opposta, i cui possibili effetti negativi vennero evitati grazie all’originalità e alla qualità politica del progetto dell’Ulivo di Romano Prodi.

Quanto è accaduto negli anni seguenti era di fatto scritto nelle scelte, autonome o obbligate, compiute in quel biennio 1994-1996.

Il Partito popolare italiano con il suo simbolo e il suo gonfalone si presentò sino alle elezioni del 2001 (sette anni come per il Ppi di Sturzo, che pure lasciò un segno indelebile nella storia del novecento), e in seguito giocò la propria iniziativa e la propria influenza politica nella Margherita prima e nel Partito democratico oggi, con l’amarezza di dover sperimentare percorsi imprevisti al momento della propria costituzione, ma con l’orgoglio di non aver ammainato le proprie ragioni, anzi, di aver concorso a farle diventare ragioni condivise anche da chi proveniva da altre storie.

Quella cultura delle istituzioni, quella centralità della Carta costituzionale, quella idea di uno Stato dell’inclusione e non della divisione e dell’esclusione, quella cultura della rappresentanza sociale e della mediazione, sono diventate infatti patrimonio oggi condiviso ben oltre i confini della nostra esperienza.

In questo senso possiamo dire che il Popolarismo che noi abbiamo riproposto nell’ultima fase della vita repubblicana si è rivelata cultura politica ancora importante e influente. Anche per questo, nei tempi recenti, ci siamo opposti all’appropriazione indebita del nome “Popolari”, non solo perché giuridicamente il Ppi ancora ne è titolare, ma anche perché riteniamo che questo nome debba essere sottratto alle sperimentazioni politiche suggerite dalle contingenze storiche o ancor peggio dai sondaggi elettorali.

Noi disponiamo ancora degli strumenti giuridici per inibire un tale uso, ma vorremmo evitarvi il ricorso e vorremmo che, così come per il nome Democrazia cristiana e il suo simbolo, anche per il nome Popolari e Partito popolare italiano, si potesse creare una sorta di rinuncia concordata da parte di tutti coloro che presumono di averne qualche titolo, sotto la garanzia degli ultimi segretari dell’una e dell’altra esperienza, e il deposito in custodia di nomi e simboli proprio in questo Istituto, che nel nome di Sturzo tutto ricapitola e tutti si riconoscono.

Per concludere, un’ultima considerazione. Viviamo tempi difficili, la politica italiana non ha ancora definito un nuovo equilibrio. Ancora in queste ore registriamo tensioni che ci fanno pensare, per evocare nuovamente il titolo del libro di memorie di Gabriele De Rosa, che la transizione sia ancora lontano dal terminare. È stato sempre Martinazzoli, evocando Paul Valéry, a osservare che «ciò che è utile per gli uomini riguarda la profondità e la lentezza, (ma, purtroppo) la politica si gioca sulla superficie e sulla velocità».

Sappiamo bene che oggi è urgente dare risposte ai problemi urgenti degli italiani, in particolare a quelli dei giovani, ma non tarderà molto il tempo in cui tornerà l’esigenza della profondità e di una prospettiva lunga, tempo in cui, in forme sicuramente nuove, si riproporrà la domanda ai cattolici italiani di un contributo all’altezza del loro patrimonio morale e ideale.

 



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Pietro Panzarino - Vicedirettore

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