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29 marzo 2024

Le ultime poesie italo-friulane di Pasolini

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Luca Barbirati | commenti |

Fanno da terzo libro, o da appendice, le dodici poesie italo-friulane pubblicate da Pasolini tra il 1973 e il 1974, raccolte assieme a La meglio gioventù e Seconda forma de La meglio gioventù nel 1975. Queste poesie non c’entrano nulla col resto – parola dello stesso Autore – se non per l’uso, frammentato, della lingua friulana. Qui, forma e contenuto, italiano e dialetto, slancio e rassegnazione, sono in costante rapporto schizofrenico che va ben oltre all’ossimoro. Gianfranco Contini parlava a ragione di “sineciosi”. Definiscono per contrari. La sostanza non è doppia, è lo stesso doppio a diventare sostanza facendo coabitare gli opposti (convivano infanzia e maturità [..] grazia e dolore). Pasolini, nel suo ultimo anno di vita, sa che non potrà vedere la rivoluzione culturale sperata; queste dodici poesie sono un testamento gettato nel mare in burrasca, l’ultimo folle gesto di chi muore ma vorrebbe solo correre, di chi piange ma vorrebbe solo cantare (Prenditi / tu, sulle spalle, questo fardello. / Io non posso: nessuno ne capirebbe / lo scandalo).

Nella poesia Significato del rimpianto, Pasolini si domanda perché mai dovremmo aiutare i nemici di classe a risolvere i loro problemi. Nei primi anni ’70 il Boom conosce la prima battuta d’arresto, il costo dell’energia schizza alle stelle, l’inflazione aumenta ed è accompagnata dalla stagnazione economica (Noi dovremo dargli una mano?). La domanda buca la pagina. Se i signori, gli stessi signori che hanno fatto mutare le scelte e le abitudini del popolo, non riescono più a mantenere e portare a compimento il loro progetto, perché i comunisti dovrebbero aiutarli nella borghesizzazione del mondo? Aiutare lo sviluppo capitalistico equivale a rassegnarsi a questa realtà (a credere che quella loro realtà / fosse quella di tutto il futuro). I problemi del capitalismo sono la questione ecologica, la salute, l’istruzione e la vecchiaia. Domandarsi se occorre farsi carico di questi problemi mina la stessa idea di democrazia, quale è conosciuta dal secondo dopoguerra. Pasolini piange un mondo morto, sa che il popolo non ha la forza per una rivoluzione e che si è venduto il sorriso per l’ansia di star bene e nel più breve tempo.

In Poesia popolare il popolo ne è solo titolo e oggetto. Pasolini parla a se stesso, al PCI e agli intellettuali di sinistra. Il dubbio si accompagna all’imbarazzo della propria lucidità: Ci siamo sbagliati credendo che fosse / impossibile che gli uomini potessero cambiarsi / così in così poco tempo, che i ragazzi / crescessero, in così poco tempo, così votati / a un nuovo destino. Pasolini non si capacita di come sia stato possibile un tale cambiamento antropologico e tutto solo per mille lire di più in saccoccia. Non riesce a rassegnarsi al fatto che il popolo, che lui tanto ama, non è più un popolo di santi bensì è diventato un popolo di stupidi (della santità non è rimasto più niente). Il proletariato non capisce che l’illusione del maggior benessere economico porta con sé un compromesso diabolico (i soldi del giorno della vostra fine) né che i primi a godere la crescita della ricchezza sono i ricchi. Tuttavia l’appello è rivolto ancora a loro, allo stesso popolo corrotto. Egli si augura che questo cambiamento non sia tutta la nuova storia e come prova delle proprie speranze aspetta una rivoluzione. Se il popolo saprà tornare indietro significa che non si era corrotto per sete di benessere bensì per santa rassegnazione e, secondo Pasolini, solo chi sa rassegnarsi sa anche ribellarsi.

In Appunto per una poesia in lappone l’interlocutore diventa il politico e l’intellettuale socialdemocratico, ossia chi accetta e convive serenamente con la cultura ed il progresso capitalista, chi è contento se il colono è diventato un civile residente di periferia, chi si preoccupa amorevolmente di rendere più umane ed accessibili le istituzioni borghesi. Secondo Pasolini proporre altri modelli di sviluppo più sani, ecologici, attenti alle esigenze dell’uomo e della Terra, significa accettare tale primo modello di sviluppo e volerlo solamente migliorare, modificare o correggere. La critica pasoliniana è assoluta. Non è sufficiente rifiutare questo tipo di sviluppo, bisogna rifiutare lo sviluppo, perché sbagliato e maledetto nella sua essenza. Il capitalismo è maledetto perché ha corrotto le belle anime del popolo contadino (leggere anche le Novelle rusticane di Verga). La società occidentale ha promesso felicità e benessere illimitato a tutti i borghesi che accettano le regole di tale modello: il consumo, la precarietà e la deregolazione venduti come necessità, sicurezza e norme. Lo scacco emerge dalle stesse basi dello sviluppo. Pasolini, pur nella rassegnazione, non vuole rassegnarsi ed intravede una possibilità di salvezza: la recessione. Ma ancora una volta, così facendo, mina le fondamenta sociali (Cinque anni di sviluppo hanno reso gli italiani un popolo di nevrotici idioti, cinque anni di miseria possono ricondurli alla loro sia pur misera umanità).

L’Autore grida, urla, si contorce nuovamente in Appunto per una poesia in terrone: Perché la nostra ansia, se è giusto che non sia più ansia di miseria, sia ansia di beni necessari. Torniamo indietro, col pugno chiuso, e ricominciamo daccapo. Non vi troverete più di fronte al fatto compiuto di un potere borghese ormai destinato a essere eterno. Il vosto problema non sarà più il problema di salvare il salvabile. Nessun compromesso. Torniamo indietro. Viva la povertà. Viva la lotta comunista per i beni necessari.

L’ultima poesia, mal dedicata a Gianfranco Contini, s’intitola Saluto e augurio ed è scritta interamente nella lingua materna (È quasi sicuro che questa è la mia ultima poesia in friulano). Pasolini parla ad un giovane fascista, ignorante di politica, e senza la camicia bruna. Come mai sceglie un destinatario tanto inconsueto e scandaloso? La confusione e l’incomprensione sono immediate. Occorre dimenticare il significato delle parole stesse e lasciarsi accompagnare dall’Autore. Difendi, conserva, prega! La Repubblica / è dentro, nel corpo della madre. Secondo Pasolini, la socialdemocrazia ottenuta con le lotte antifasciste non ha rispettato il passato, la natura e le differenze del popolo. Da un potere formalmente fascista siamo passati ad un potere, sì democratico nella forma, ma diabolico nella sostanza. Salvarsi dall’omologazione occidentale è possibile solo attraverso una restaurazione di un “potere ideale” (virgolette mie) che sappia ascoltare gli Dei dei campi. Difendi i paletti di gelso, di ontano, in nome degli Dei, greci o cinesi. Muori di amore per le vigne. Per i fichi negli orti. I ceppi, gli stecchi. Pasolini si appella all’uso rivoluzionario della tradizione (come nota Franco Cassano ne Il pensiero meridiano), al recupero del sacro purché non diventi repressione, del sublime purché non cada nell’intolleranza per l’Altro. È un testamento metapolitico, un’ultima illusione, consegnato forse a chi è troppo lontano per poterlo ricevere: prenditi tu questo peso, ragazzo che mi odii: / portalo tu. Risplende nel cuore. E io camminerò / leggero, andando avanti, scegliendo per sempre / la vita, la gioventù.

Pier Paolo Pasolini, La nuova gioventù. Poesie friulane 1941-1974 (Einaudi, 1975)



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