L’Intelligenza Artificiale non è intelligente, ma continua a prendere il nostro posto
Il professore Pauletto di Castelfranco Veneto, esperto di AI, ci spiega come funziona
| La redazione |

Il professor Daniele Pauletto e si occupa d’Intelligenza Artificiale da molto tempo, già nel 2019 con i suoi studenti di Castelfranco Veneto aveva “riscritto” la Divina Commedia di Dante, con le prime applicazioni di AI, e nel corso degli anni ha pubblicato diversi libri sul tema, tra i quali: "Oltre il limite, Intelligenza Artificiale Generativa” nel 2023 e "Prompt Engineering: Chat GPT e &” nel 2024. Oggi ci spiega come funziona, con un linguaggio accessibile a tutti ma soprattutto dando interessanti spunti su come “sfruttare” questo strumento senza complessi d’inferiorità, giacché come ripete sempre l’AI non è intelligente.
L’AI secondo il professore Daniele Pauletto
Gli algoritmi che oggi scrivono testi (ChatGPT, DeepSeek ecc..), generano immagini e pure suonano strumenti musicali ma non capiscono. Non ragionano, non hanno un pensiero critico. Fanno previsioni sulla base di enormi quantità di dati. Se ti sembrano intelligenti è perché imitano bene. È come se un robot avesse guardato talmente tanti umani parlare, che ora sa sembrare convincente. Ma non sa di esserlo. Nonostante l’ampio utilizzo del termine “intelligenza artificiale”, le tecnologie attualmente note come AI non possiedono né coscienza, né intenzionalità, né capacità di ragionamento astratto. Il suo funzionamento consiste nell'elaborazione di grandi set di dati e nella generazione di output probabilistici in base a correlazioni statistiche apprese. Definire questa elaborazione come "intelligente" è corretto solo in un’accezione funzionale e pragmatica: la macchina risolve problemi complessi. Ma resta priva di qualsiasi comprensione semantica o cognizione.
L’Illusione dell’Intelligenza
L’IA non ascolta, non sente, non riflette. Quello che percepiamo come intelligenza è il risultato di un addestramento su miliardi di parole, frasi, domande. Una statistica elaborata ed estesa, un’imitazione affilata, ma pur sempre vuota. Eppure continuiamo a chiamarla “intelligente”. Sotto ChatGPT, Gemini, Claude … c’è solo un motore potentissimo di elaborazione statistica. Un gigantesco calcolatore che analizza pattern nei dati per restituire, con sorprendente precisione, ciò che probabilmente ha senso in un dato contesto. Chiamarla “intelligenza” artificiale è, in fondo, un malinteso semantico. O forse un’abile mossa di marketing. Quando un chatbot ci sembra "intelligente", è perché imita molto bene i modi umani di comunicare. Ma è un’imitazione, non una comprensione reale. L’IA non sa di sapere. Non sa nemmeno di esistere.
Ma allora... funziona o no?
Sì, funziona alla grande. In certi ambiti, funziona meglio degli esseri umani. Dall’analisi di immagini mediche alla traduzione automatica, l’IA ha superato limiti impensabili solo dieci anni fa. Se definiamo “intelligenza” come la capacità di risolvere problemi complessi, allora sì: l’IA è intelligente in senso pragmatico. Risolve problemi. Ci fa risparmiare tempo. A volte ci sorprende con soluzioni creative. Ma se per intelligenza intendiamo ciò che ci rende umani - la capacità di ragionare in modo astratto, di riflettere sul significato delle cose, di avere una coscienza e un’intenzione- beh, allora no. L’IA non è nemmeno vicina.
Perché dovremmo preoccuparci
Il problema non è tanto cosa può fare l’IA. Il problema è cosa crediamo che sia. Attribuirle caratteristiche umane rischia di confondere l’opinione pubblica, di deresponsabilizzare i decisori, di offuscare i veri limiti e pericoli della tecnologia. Quando pensiamo all’IA come a una "mente", rischiamo di fidarci troppo. O di temere troppo. La verità è molto più terra terra: l’IA è statistica evoluta che, a forza di dati, ha imparato a "recitare" la parte dell’intelligenza.
La vera sfida quindi è culturale
Capire cos’è davvero l’IA ci aiuta a usarla meglio, a regolamentarla con più lucidità, e soprattutto a non cadere in illusioni pericolose. Perché il problema non è che l’IA non capisce: è che spesso siamo noi a non capire lei.
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