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28 marzo 2024

Valdobbiadene Pieve di Soligo

Farra di Soligo, il vigneto nel cimitero

A Soligo un vecchio luogo di sepoltura ormai dimenticato è stato piantumato con le viti. Una “resurrezione” del territorio che vince sulla morte?

| Fabio Zanchetta |

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| Fabio Zanchetta |

vigneto cimitero

FARRA DI SOLIGO - Alle pendici del San Gallo, a poche decine di metri dalla chiesa dei Santi Pietro e Paolo di Soligo, le decorazioni di alcuni muri in rovina rivelano un vecchio luogo di sepoltura nei terreni ora occupati da vigneti. Un sito curioso e bizzarro, che testimonia il complesso rapporto con la storia di un territorio dove ogni ettaro è una potenziale miniera d'oro. Sembra incredibile, ma anche i cimiteri hanno una vita: a dispetto della retorica sull'eternità la loro esistenza è legata a uno scopo, e quando questo si esaurisce si apre il problema di cosa farne.

 

Un argomento molto attuale nel trevigiano, dove cittadini e associazioni combattono per dare una nuova vita a quello Santa Maria in Colle a Montebelluna, abbandonato da quasi un secolo e spesso vittima dei vandali, o dove magari un camposanto perduto e i suoi “ospiti” possono essere scoperti inavvertitamente durante uno scavo, come avvenuto a Formeniga qualche anno fa. Tipicamente si tratta di cimiteri costruiti nel passaggio tra l'epoca medievale e quella moderna e abbandonati a un certo punto per motivi di spazio o di pianificazione urbanistica: quello di Soligo fu costruito nel 1860 in seguito all'epidemia di colera di cinque anni prima che aveva esaurito le sepolture nel sagrato della chiesa, e chiuso già nel 1909. In quel mezzo secolo scarso la piccola comunità si trovò quindi con due campisanti differenti a poche decine di metri di distanza: uno di origine medievale costruito attorno alla chiesa, di cui rimane solo una cappella gentilizia dove si legge in latino “Resurrecturis”, il futuro semplice di “risorgere”, l'altro progettato con in mente un'idea dello spazio della morte che iniziava ad essere laica.

 

Lì infatti i defunti erano sepolti al di fuori del sagrato, considerato nel Medioevo il luogo di incontro tra vivi e morti, non vi si entrava per le celebrazioni religiose e, come si può notare ancora oggi, le mura di cinta avevano elementi architettonici che rievocavano i templi greci ed erano decorate con simboli di resurrezione di gusto neoclassico. Poi il bisogno di ampliare nuovamente lo spazio delle sepolture e il terreno paludoso poco distante, con tutti i rischi sanitari del caso, spinsero la comunità a cercare un altro luogo per edificare quello che sarebbe diventato il vero cimitero moderno di Soligo, ancora oggi in uso.

 

Le salme del cimitero ottocentesco furono trasferite nell'ossario di quello nuovo, le lapidi progressivamente rimosse lasciando solamente le strutture con i loro ricordi sbiaditi. In seguito il terreno non fece altro che tornare alla sua vecchia vocazione, quella che avrebbe reso universalmente note le colline poco più di un secolo dopo: per costruire il cimitero le autorità avevano infatti espropriato a Moise Vita Jacur, facoltoso finanziere ebreo di Padova, parte dei suoi vigneti. Se, come diceva lo scrittore romano Petronio, il vino è vita, per una volta questa può ben dire di aver vinto sulla morte.

 

 

 

 


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Fabio Zanchetta

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