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19 aprile 2024

Cronaca

Due quattordicenni su 5 entreranno alle superiori con competenze da quinta elementare"

Il segretario nazionale dell'Associazione nazionale Pedagogisti De Lorenzo commenta a OggiTreviso i risultati di un anno e mezzo di DaD rilevati dai test Invalsi.

| Roberto Grigoletto |

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| Roberto Grigoletto |

Prove d'esame scuola superiore

TREVISO - Gianfranco De Lorenzo è il segretario nazionale dell’Associazione nazionale dei Pedagogisti (Anpe). Con OggiTreviso commenta i risultati dei test Invalsi appena diffusi e che ci restituiscono una scuola, dopo un anno e mezzo di pandemia, in crisi a livello di apprendimenti attesi.

Segretario, per cominciare spieghiamo ai nostri lettori che cosa sono le prove Invalsi di cui l’altro giorno sono stati pubblicati i risultati.

Si tratta delle prime prove standardizzate rivolte a tutti gli studenti dopo lo scoppio della pandemia che ha comportato la sospensione delle rilevazioni nel 2020 e rappresentano la prima misurazione su larga scala degli effetti sugli apprendimenti di base conseguiti in italiano, matematica e inglese, dopo lunghi periodi di interruzione delle lezioni in presenza a causa dell’elevato numero dei contagi.

Una efficace cartina di tornasole…

Il Rapporto Nazionale Invalsi ci offre, ad una lettura attenta, una fotografia di come sta reagendo il nostro sistema scolastico a due anni dalla pandemia che ha causato non pochi problemi alla scuola italiana, soprattutto per quegli alunni che, per via delle prolungate chiusure dovute al Covid 19, hanno dovuto affrontare lunghi periodi di DaD.

E che cosa è emerso, al di là dei primi commenti a caldo che hanno fatto un po’ tutti?

Il quadro evidenzia numerose problematicità per la scuola italiana, anche se si rilevano alcuni aspetti positivi che riguardano, soprattutto, la scuola primaria. Questa, infatti, è riuscita ad affrontare le difficoltà della pandemia garantendo risultati pressoché uguali a quelli riscontrati nel 2019.

In tutte le regioni d’Italia, da nord a sud?

I risultati in generale sono molto simili in tutte le regioni del Paese. Ciò nonostante, emergono alcune indicazioni che lasciano intravedere aspetti che nel ciclo secondario contribuiscono a determinare esiti diversi sul territorio nazionale e tra le scuole. Già a partire dal ciclo primario si riscontra una differenza dei risultati tra scuole e tra classi nelle regioni meridionali. Ciò significa che la scuola primaria nel Mezzogiorno fatica maggiormente a garantire uguali opportunità a tutti, con evidenti effetti negativi sui gradi scolastici successivi.

Meno bene per le Medie e le Superiori, giusto?

È così: ad aver avuto maggiori problemi negli apprendimenti sono stati gli alunni delle scuole medie e superiori che, ricordiamo, anche nell’ultimo anno scolastico sono dovuti stare più spesso a casa rispetto gli alunni della primaria, per via delle chiusure causate dalla pandemia.

Colpa della DaD: allora è vero…

Probabilmente il lungo periodo di DaD ha prodotto i suoi effetti dal momento che sia nella scuola secondaria di primo che di secondo grado le perdite maggiori di apprendimento si registrano tra gli allievi che provengono da contesti socio-economico-culturali più sfavorevoli tra i quali diminuisce di più la quota di studenti con risultati più elevati con una riduzione dell’effetto perequativo della scuola sugli studenti che ottengono risultati buoni o molto buoni, nonostante provengano da un ambiente non favorevole.

Ci siamo persi per strada più studenti di quanto si potesse immaginare

Le problematiche che si rilevano appaiono attribuire le colpe anzitutto alla situazione pandemica che sembra avere accentuato anche il problema della dispersione scolastica, soprattutto nelle sue componenti più difficili da individuare e quantificare. I dati permettono di individuare la così detta dispersione scolastica implicita riferita a quegli studenti che, pur non essendo dispersi in senso formale, escono però dalla scuola senza le competenze fondamentali, quindi a forte rischio di avere prospettive di inserimento nella società non molto diverse da quelle degli studenti che non hanno terminato la scuola secondaria di secondo grado.

Non c’è da stare proprio tanto allegri, concorda?

Il dato su questo tipo di dispersione è davvero preoccupante perché mentre nell’ultima rilevazione del 2019 si attestata al 7% ora è in aumento e nelle regioni meridionali balza anche ad una percentuale a due cifre aggiungendosi alla percentuale già alta del numero delle dispersioni scolastiche esplicite. A pagare il conto più salato - non sorprendentemente - sono stati i ragazzi con un background più fragile, in particolare i cosiddetti «resilienti», cioè quelli che prima, con le scuole aperte, riuscivano invece a cavarsela bene, anche se non potevano contare sull’aiuto di mamma e papà.

Cos’altro ci dicono i dati raccolti con le prove Invalsi?

Ci dicono anche che due quattordicenni su cinque, con punte del 50-60 per cento al Sud, dopo l’estate entreranno alle superiori con competenze da quinta elementare. E ai loro fratelli maggiori che hanno appena tagliato il traguardo della maturità va pure peggio: quasi uno su due è fermo a un livello da terza media, massimo prima superiore. E pensare che molti di questi inizieranno un percorso universitario dove avremo anche ricadute negative. Non che prima della pandemia fosse tutto rose e fiori, ma in questi due anni c’è stato un vero e proprio crollo degli apprendimenti, soprattutto alle superiori, che sono rimaste sbarrate per la maggior parte del tempo.

Elementi oggettivi che dovrebbero scongiurare il ricorso alla didattica a distanza…

Che l’indice sia da imputare alla DaD lo dimostra il fatto che le due regioni che sono andate in assoluto peggio sono anche quelle che hanno tenuto i cancelli delle scuole chiusi per più tempo: Puglia e Campania. La Puglia in particolare, che per diversi anni è stata citata come esempio in controtendenza incoraggiante, rispetto al resto del sud, si è giocata con la pandemia quel guadagno che aveva accumulato dimostrando che il miglioramento, una volta raggiunto, non procede da solo costantemente, ma va coltivato.

A settembre dunque tutti in presenza?

È importante che a settembre le scuole tornino in presenza, come ha ribadito anche il ministro Patrizio Bianchi. I due anni trascorsi con la pandemia non li recuperiamo schioccando le dita, ma usare questi dati può aiutare certamente a prendere decisioni efficaci. Per fronteggiare la povertà educativa non basta solo la scuola, ma è l’intera popolazione che deve crescere sul piano culturale dal momento che le sole competenze di base non bastano. La scuola deve insegnare il gusto di imparare, deve nutrire le conoscenze di chi è in crescita e va evitato il danno di motivazione altrimenti chi abbandona è proprio lo studente più fragile.

Sotto questo aspetto la nostra scuola di buono ha che ha sempre esso in atto strategie e percorsi per non lasciare indietro nessuno.

Sì, la scuola italiana è sempre stata differente dalle altre scuole europee, ad esempio nel principio dell’accoglienza e dell’inclusione: le nostre scuole accolgono alunni in classi anche oltre ì venti alunni e lo fanno con tutti, inclusi i portatori di handicap o gli stranieri che arrivano anche alla fine dell’anno. Dunque, è una scuola che è sempre stata abituata a integrare e a modificare i programmi didattici in modo da andare incontro alla necessità dei singoli.

Su quali “carenze” dovrebbe invece lavorare il nostro sistema scolastico?

Penso che la cosa che manca di più nella scuola di oggi è ciò che riguarda le scelte pedagogiche. Sembra che l’innovazione scolastica riguardi solamente le future dotazioni: computer, lavagne interattive, ecc. Gli strumenti informatici potrebbero sicuramente rivelarsi utili, ma la tecnologia non risolve nulla se la immetti in un quadro già depauperato delle risorse essenziali per una scuola. Certo, è vero che un alunno resta affascinato dalla possibilità di usare il computer perché gli sembra di apprendere più velocemente, ma non si tratta di fare le cose con maggiore velocità e quindi in minor tempo. In un sistema che tende a velocizzare tutti i processi credo che sarebbe meglio riuscire a ritagliarsi il tempo per ragionare e riflettere insieme.

Magari con una programmazione di classe diversa…

Dedicare del tempo alla creazione di una piccola comunità in grado di collaborare, di scambiarsi idee, di porre domande, di interrogarsi sulle soluzioni, una comunità che sappia porsi con un pensiero critico di fronte a ciò che vive in una scuola. Sarebbe proficuo poter dire agli alunni di avere pazienza, di poter tornare indietro per esaminare insieme i procedimenti che hanno portato a quel risultato, esaminiamo insieme l’eventuale errore e capire perché è un errore: un lavoro difficile perché è un continuo mettere in discussione se stessi.

Mentre invece prevale spesso il modello didattico anglosassone

Se l’idea di fondo oggi è quella dell’insegnamento in funzione dei test, con l’obiettivo della massima performance siamo ben lontani dall’obiettivo di recepire le novità della pedagogia per arginare la dispersione e l’abbandono scolastico. Se vogliamo un’istituzione dalla quale escano cittadini competenti, non possiamo fare della scuola un continuo esercizio, è questo il problema.

A proposito di problemi della scuola italiana: l’età media degli insegnanti non è proprio tra le più basse…

Un corpo docenti sempre più anziano, con un innalzamento dell’età pensionabile delle donne (una grandissima parte del corpo docente) e alla fine la distanza generazionale tra chi insegna e gli alunni non è mai stata così alta. Nel dopoguerra i maestri hanno rifatto l’Italia con classi di cinquantasei, sessanta alunni, sui cucuzzoli delle montagne. Lì, tra l’altro, è nata l’idea di fare lavorare gli alunni più grandi coi più piccoli. E così si è fatta l’alfabetizzazione. Poi abbiamo avuto a lungo la maestra unica, fin quando ci si è resi conto che i saperi si allargavano e si doveva fare qualcosa. La scuola media è stata riformata negli anni 60, l’elementare nel 1985 con nuovi programmi bellissimi e vastissimi.

Sta dicendo che abbiamo dilapidato un patrimonio di esperienze?

Avremmo dovuto monitorare, capire cosa recuperare e cosa togliere, ma poi l’economicità ha dettato la legge. Su cosa dobbiamo lavorare? Sull’interesse, sulla motivazione, sul ragionare su come ragiono. Dovremmo rivalutare il tempo che non è una richiesta da niente. Se però lo riducono...

 


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