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28 marzo 2024

Diario di un giovane scrittore

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Luca Barbirati | commenti |

«Nessuno vi può consigliare e aiutare, nessuno. C’è una sola via. Penetrare in voi stesso. Ricercate la ragione che vi chiama a scrivere; esaminate s’essa estenda le sue radici nel più profondo luogo del vostro cuore, confessatevi se sareste costretto a morire, quando vi si negasse di scrivere». Con queste parole, Rilke, si rivolge a Kappus ma, per la loro densità, attraversano qualsiasi destinatario disperdendosi e riconcentrandosi in ogni scrittore che ha avuto l’insania di nascere dopo quel 17 febbraio 1903, giorno in cui Rilke scrive e consegna queste parole.

Quando inizia a tenere il suo diario, György Lukács, non è ancora un autore pubblicato, anche se nel 1909 ha già in cantiere numerosi saggi di estetica che faranno parte, nel 1911, de “L’anima e la forma”, forse il suo testo più felice. Ma il suo diario viene prima di tutto questo. Lo accompagna nei momenti più intimi in cui l’abisso sembra il solo piano d’appoggio; nei momenti in cui il pennino ed i quaderni sembrano gli unici arnesi per aggrapparsi e far fronte a tutte quelle misteriche forze che, all’opposto, si coagulano per farlo sprofondare sempre più in basso, fino all’estremo, fino al culmine della disperazione.

Il 1910, per la storia della letteratura europea, è un buco nero di angoscia esistenziale: Michelstaedter termina “La Persuasione e la Rettorica”; Rilke pubblica i “Quaderni di Malte” e Lukács intraprende un viaggio meta-fisico tra Berlino, Weimar e Firenze in cui tocca ogni anfratto della sua carne grondante dolore. Due note, entrambe scritte il primo giugno 1910, sono sufficienti a mostrare lo stato in cui si trova il futuro saggista ungherese: «Il fatto che tutta la mia vita – in sostanza – si vada sempre più chiarificando e sia in continua ascesa, non serve forse a far sì che un bel giorno saranno davanti a me, in completa nudità, il suo definitivo vuoto e la sua definitiva essenzialità: la tragedia? La sento venire. […] Penso che mi sparerò alla testa. Avverto come un segno il fatto di avere avuto l’energia di farmi comprare una rivoltella».

Ma cosa spinge Lukács a chiedere a Otto Mandl di comprargli un’arma da fuoco? E, parallelamente, cosa fa scrivere Michelstaedter all’amico Paternolli, il 24 marzo 1910: «Ieri sera fui in soffitta a prendere alcuni libri che mi abbisognavano, e la rivoltella. Quanta pace c’è lì su, che non c’è altrove – che non c’è nel mio animo che “va colla testa bassa”»? È la vicinanza alla morte? È quella strana sensazione che ti fa essere un sodalo, un tutt’uno, con la morte, perché la vita è tutta una rappresentazione che non placa l’animo di chi pretende una scultorea concretezza – quel massiccio solido che è la Verità?

Forse devo andare contro il “Contro Sainte-Beuve” di Proust, perché qui il diario-opera è la vita che si fa forma; in questo luogo, cantiere d’eccellenza, gli elementi sono talmente intricati da non poter distinguere la vita dalla letteratura, né l’uomo dal narratore. Con Cioran, un filosofo distruggerebbe il mondo per un mal di denti. Ebbene, il 29 settembre 1910, Lukács scrive: «Firenze senza Irma – e c’è qualcosa di importante: le stesse cose di allora: Giotto e Michelangelo. Non sono inebrianti come allora […] Settignano, così mi fa un effetto molto triste […] Questi luoghi ormai non sono più terrestri; le persone che vi erano allora illuminate dalla mia vita». La sua vita è la sua amante, è Irma Seidler, che al posto di Lukács sposerà il pittore Kéroly Réthy. La concentrazione di vuoto, di angoscia e di disperazione ha, in queste confessioni diaristiche, una prospettiva umana e adolescenziale: la presenza soffocante dell’assenza dell’amata.

Ma non tutti sopravvivono alla propria adolescenza: Nadia Baraden, amica-amante di Michelstaedter, si suicida nel 1907; Irma la segue nel 1911; lo stesso Michelstaedter non riesce a salpare come marinaio dopo (non) aver conseguito la laurea. E il giovane Lukács? Lui, nel corso della sua vita, prova a rispondere alla domanda che termina le sue annotazioni, il 16 dicembre 1911: «Come posso dar forma a ciò che è alto?».

György Lukács, Diario 1910-1911 (Adelphi, 1983)



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