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16 aprile 2024

Treviso

COSSA VUTU CHE TE DIGHE?

Il ministro Zaia vuole che il dilaletto diventi materia scolastica. Il ministro Gelmini è dubbioso. Il poeta (del petel) Zanzotto commenta: “Sono discorsi a vanvera”

| Emanuela Da Ros |

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| Emanuela Da Ros |

COSSA VUTU CHE TE DIGHE?

Treviso - “Sono proposte senza capo, né coda. Sono tutti discorsi a vanvera”. Andrea Zanzotto, il poeta italiano (e veneto) più noto nel mondo non usa perifrasi ampollose. Non commenta nemmeno il perché e il che cosa possa esserci alla base della (ri)proposta di introdurre (obbligatoriamente) il dialetto nelle scuole. Va dritto al sodo. E il sodo è una secca bocciatura.

Quando chiediamo a lui, che ha scritto in vernacolo versi palpitanti di tradizione, a lui che ha fatto del “petèl” (cioè del dialetto-bambino) una lingua magistrale, intensa, vera come l’essenza della vita, quando gli chiediamo che pensa della proposta del ministro Zaia di fare del dialetto veneto una materia scolastica, Zanzotto risponde “è una proposta senza capo né coda”. Per Andrea Zanzotto il dibattito sull’introduzione del dialetto nelle scuole è delirio.

“Non ha senso – dice il grande poeta di Pieve di Soligo – insegnare il dialetto. Il dialetto si apprende …naturalmente. E poi, volendo accademizzarlo, quale dialetto si sceglierebbe? Non esiste un dialetto. Esistono i dialetti. Non esiste una koinè veneta: certo le microlingue locali si assomigliano, ma ognuna ha una sua identità. Ogni dialetto è diverso: è se stesso nella sua diversità.”

Insomma Zanzotto boccia in toto la proposta di Zaia. “Sono discorsi a vanvera”, ribadisce.

Eppure ieri, in un comunicato stampa, il ministro Zaia aveva insistito sul fatto che il dialetto veneto è – in un certo senso “lingua comunitaria”. E’ una lingua che unisce veneti e immigrati, i quali – secondo il ministro – imparano a comunicare in dialetto prima che in italiano. Zaia è talmente convinto che il dialetto sia veicolo di integrazione che lo vuole inserire nei programmi scolastici come materia obbligatoria.

Ma la ministra Gemini ieri ha espresso perplessità: “Non sarebbe meglio che i ragazzi imparassero prima le materie fondamentali?”

La questione è aperta. E’ accesa. E’ forte.

A Vittorio Veneto, Aldo Toffoli (autore vicino al dialetto per vocazione e sensibilità letteraria) non la vuole nemmeno liquidare con una battuta. “Sulla questione – dice – ho in animo di scrivere un libretto. Non posso liquidare una faccenda così complessa e ricca di connotazioni con una semplice dichiarazione”.

In attesa che Toffoli scriva un pamphlet sul dialetto come disciplina da introdurre o meno nelle scuole, abbiamo chiesto che pensa della faccenda a Ulderico Bernardi, opitergino, docente di sociologia dei processi culturali all'Università Ca' Foscari di Venezia.

“Il dialetto nelle scuole non è una novità assoluta – commenta Ulderico Bernardi  “Era già stato introdotto come materia scolastica 80 anni fa con la riforma Gentile – spiega – Fu Mussolini ad annullare questa innovazione”. Perché il riconoscimento del dialetto, o della lingua regionale, è una scelta politica. “È sempre una questione di volontà politica”, sottolinea Bernardi.
Il professore si dichiara favorevole all’insegnamento della parlata locale sui banchi di scuola “se questo significa valorizzare tutti gli elementi della cultura locale, dalla lingua ai proverbi,  dalla poesia ai canti popolari e al teatro, dalla gastronomia agli elementi di architettura”.
“Il vero problema semmai – avverte Bernardi - sta nel preparare i formatori, che dovranno poi trasmettere questa cultura agli studenti”.

Eh già: chi lo insegnerebbe? Se lo chiede anche Silvano Piccoli, docente del Liceo Flaminio di Vittorio Veneto e scrittore, autore tra l'altro di una traduzione dei Carmi di Catullo in dialetto.

“E’ una trovata del momento – considera Piccoli - Una trovata elettorale che la Lega aveva già tirato in ballo 20 anni fa ma che trova troppi ostacoli di attuazione. Primo tra tutti il fatto che non esiste un solo dialetto ma tante forme diverse che cambiano da paese a paese. La fonetica varia già tra Vittorio e Fregona. Quindi, quale dialetto si insegnerebbe?"
Silvano Piccoli però non boccia totalmente la proposta del ministro leghista: “Zaia ha ragione se vuole che i programmi scolastici si aprano alle culture e ai poeti dialettali”.

Il codice linguistico è solo uno degli elementi che compongo la cultura: lo stesso concetto è ribadito da Giuliano Galletti, autore di libri sulla storia e la cultura trevigiana e professore di italiano al liceo scientifico “Marconi” di Conegliano.
“Il dialetto non è semplicemente un codice linguistico, è l'espressione di un mondo, e di un mondo che in gran parte è ormai scomparso”, spiega Galletti.

“Il dialetto è fatto di parole che significano oggetti concreti, nessuno dei quali ha a che fare con la realtà che ci circonda - prosegue - è fatto di concetti legati all'esperienza reale di un mondo contadino legato ai cicli naturali. Questo mondo possiamo rimpiangerlo, ma le lingue che possono esprimere la nostra realtà, quella in cui viviamo, sono altre”.
Il mondo contadino dei nostri avi è ormai perduto e proposte come quella di Bossi, che periodicamente riemergono, secondo Galletti, hanno poco a che vedere con il rimpianto, con la ricerca delle radici: “più semplicemente, mi sembrano esprimere la tendenza del nostro tempo e della nostra società (anche quella locale) a chiudersi verso il mondo esterno”.
 
 
 Emanuela Da Ros e Laura Repossi

 


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