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29 marzo 2024

Vittorio Veneto

Il conflitto in Ucraina ed i nuovi equilibri geopolitici

L'analisi dell'esperto vittoriese Manuel Tadiotto

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Guerra Ucraina-Russia

GUERRA UCRAINA / RUSSIA - A poco più di 200 giorni dall’inizio della guerra in Ucraina è possibile trarre alcune considerazioni oggettive sul corso del conflitto.

- L’invasione si è dimostrata molto più complicata di quanto avessero previsto a Mosca, confermando debolezze dell’esercito non soltanto legate a strategie sbagliate, ma bensì ad una più ampia crisi sistemica dell’intero apparato militare.

- Le battaglie hanno portato devastazione su vaste zone dell’Ucraina, gran parte delle infrastrutture sono andate distrutte, le vittime civili sono ingenti ed i caduti, in entrambi gli schieramenti, si contano in decine di migliaia.

Le difficoltà dell’esercito russo.

L’esercito russo viene considerato come una delle macchine belliche più temibili al mondo, seconda per alcuni, solo alle forze armate statunitensi. Ma perché quindi l’Ucraina si sta rivelando un avversario così difficile per Mosca?

Innanzitutto, bisogna comprendere che una battaglia di invasione è molto più difficile di una battaglia di difesa. La popolazione e l’esercito ucraini, si sono dimostrati molto più agguerriti di quanto gli analisti militari del Cremlino avessero presunto nei propri rapporti. La motivazione di chi difende il proprio territorio non è la stessa di chi invade terre straniere. Inoltre, l’umore delle truppe, con il progressivo miglioramento delle dotazioni ucraine provenienti dai paesi sostenitori e con la recente e efficace controffensiva, si è progressivamente evoluto su livelli opposti. A questo bisogna aggiungere che le forze armate di Mosca, al netto di tutte le peculiarità di un conflitto, appaiono oggi molto meno efficienti di quanto ci potessimo aspettare.

Alcuni rapporti della CIA americana, analizzando i precedenti impieghi sul campo, avevano già ipotizzato un tale scenario. Uno fra tutti - l’invasione russa dell’Ossezia del Sud e della Abcasia del 2008. Un conflitto che durò solo cinque giorni e si concluse con una disfatta delle forze georgiane, ma che evidenziò per esempio come oltre il 50% del munizionamento impiegato dalle forze di Mosca non esplose. Problematiche dovute, secondo gli analisti, alla pessima manutenzione e all’utilizzo di materiali scadenti. Un paradosso per un paese che, nel settore della ricerca militare, rappresenta un’eccellenza e che può vantare sulla carta, progetti innovativi e superiori anche a quelli occidentali.

Tutto ciò però si scontra con una prima debolezza sistemica - l’ampio fenomeno della corruzione. Gli investimenti statali non raggiungono i propri obiettivi, erodendosi inesorabilmente fra le tasche degli alti ufficiali e manifestandosi, a livello pratico, nella scarsa qualità dei materiali impiegati e nei difetti di fabbricazione dei mezzi. Una corruzione diffusa, sistemica, che intacca sia la base, sia il vertice delle strutture statali. Un esempio emblematico – il precedente ministro della Difesa, Anatoly Serdyukov, coinvolto nello scandalo di una serie di generali e oligarchi a lui vicini e congedato dall’incarico. Secondo i più recenti dati pubblicati dallo stesso governo russo, le perdite per lo stato a causa della corruzione ammontavano, nel solo 2020, a 1 miliardo di dollari, in crescita continua rispetto agli anni precedenti.

Mosca ha inoltre un esercito che tradizionalmente si basa sul servizio militare obbligatorio, e che solo negli ultimi anni è stato ridotto alla durata di 12 mesi. Qui vi è la seconda debolezza sistemica. La leva ha un impatto molto eterogeneo e antidemocratico sulla giovane popolazione. Secondo alcune ricerche, il 70 per cento dei coscritti riesce a ottenere un’esenzione dal servizio semplicemente pagando la mazzetta nei centri di reclutamento: chi si arruola lo fa perché non può pagare, è più povero e spesso proveniente dalle provincie con più forte degrado socio-economico. La leva è quindi l’inizio di un’opportunità per smarcarsi dalla miseria e per proseguire poi nel professionismo ed avere uno stipendio garantito. Ma anche per i professionisti la vita non è facile: il vitto è scadente, le condizioni igieniche precarie, molti dormitori sono senza acqua e senza elettricità. Gli stanziamenti del governo, erosi dalla corruzione, rimangono solo sulla carta.

Nel 2015 ad Omsk ci fu il crollo di un dormitorio: la manutenzione dai verbali risultava regolare, ma i lavori in realtà non si fecero e i soldi finirono nelle tasche del comandante. Morirono 24 soldati. Il salario del professionista è basso e questo spiega perché in Ucraina ci siano stati così tanti furti da parte dell’esercito di Mosca e perché ci siano stati casi di mezzi militari arrivati nei campi di battaglia senza motore o senza gli strumenti elettronici. Pezzi di ricambio trafugati e rivenduti dagli ufficiali per arrotondare lo stipendio o addirittura accumulare ricchezze per poi comprarsi le famose ville a Cipro. Ha avuto una forte risonanza mediatica il caso del capitano di un cacciatorpediniere che rubò le eliche di bronzo dal suo stesso mezzo e le sostituì con delle eliche più economiche per un bottino di 50 mila euro.

Tali lacune sistemiche si sono palesate in questo difficile conflitto già da subito, nel confronto in campo, nonostante l’esercito ucraino non avesse ancora dotazioni e mezzi minimamente paragonabili per numero, a quelli russi. Questo perché vi sono stati anche numerosi errori nelle scelte strategiche e questa è un’altra debolezza sistemica dell’apparato militare russo. I generali russi, formatisi sotto la dottrina bellica sovietica, agiscono in base alla propria formazione accademica, revisionata recentemente nella nuova dottrina Gerasimov, l’attuale Capo di Stato Maggiore dell’esercito. Secondi questa nuova teoria il ruolo dei “mezzi non militari” per raggiungere obiettivi strategici e anche politici, è sempre maggiore e in alcuni casi, più importante della forza delle armi.

A differenza delle precedenti invasioni in Crimea e nel Donbass, questa filosofia non ha funzionato, la maggior parte degli agenti russi in Ucraina sono stati intercettati e neutralizzati ed il fronte interno ucraino si è rafforzato piuttosto che indebolito, sancendo un ulteriore fallimento sistemico di un apparato minato da corruzione ed errori di valutazione. Mosca ha iniziato la guerra con una superiorità di mezzi schiacciante, attaccando in modo eterogeneo e poco logico, convinti della propria supremazia e convinti di aver di fronte un avversario non soltanto inferiore ma anche poco motivato. Vladimir Putin pensava quindi di conquistare l'Ucraina in meno di due settimane. Pensava che l’esercito ucraino si sarebbe ribellato e avrebbe appoggiato un governo collaborazionista. Si sono sbagliati, subendo perdite importanti fin da subito proprio fra i reparti d’élite, soprattutto fra le forze speciali e quelle aviotrasportate.

Il ritiro, nelle prime settimane dell’invasione, da buona parte del fronte settentrionale dell’Ucraina, a seguito dei tentativi falliti di conquistare Kiev, Chernihiv e Sumy – le principali città del nord, aveva subito fatto capire che l’illusione di una guerra lampo sarebbe svanita. La popolazione ucraina non era uscita nelle strade ad accoglierli festosa come liberatori da un regime oppressore, ma al contrario si scagliava anche inerme contro l’esercito invasore. I generali ucraini, probabilmente formatisi nelle stesse accademie militari sovietiche, non rispondevano ai tentativi dei loro corrispettivi russi, di intavolare trattative segrete finalizzate a fomentare un golpe militare a Kiev. Il territorio ucraino ha cominciato quindi progressivamente a trasformarsi in un enorme cimitero di mezzi corazzati russi. L’umore delle truppe ha iniziato a crollare scontrandosi contro l’orgoglio e la motivazione degli ucraini che nel frattempo erano ricorsi alla mobilitazione generale, sovrastando per numero le forze di Mosca, costituite unicamente da professionisti e leve firmatarie.

Kiev ha arruolato, selezionando con metodo, un milione di reclute, mentre Mosca ha iniziato l’invasione impiegando circa 200mila soldati ed ora, senza ricorrere ad una mobilitazione, non riesce neppure a rimpiazzare le ingenti perdite sul campo. Il gap fra i due eserciti ha cominciato quindi ad erodersi e si è sbriciolato con il passare dei mesi a tal punto da poter ora ritenere, in una fase che potrebbe essere il punto di svolta dell’intero conflitto, che la vittoria di questa guerra possa essere solo un’illusione utopica per Mosca.



La controffensiva ucraina

Nel mese di agosto i canali informativi ucraini hanno iniziato progressivamente ad annunciare la preparazione di una importante controffensiva ucraina nel sud del paese. L’esercito di Kiev, per trarre in inganno i russi, aveva anche iniziato alcune manovre importanti nella zona, aspettando che Mosca reagisse ammassando le proprie truppe nella regione di Kherson. La Controffensiva ucraina è però partita a Nord, nella regione di Kharkiv e nella zona centrale del fronte, verso Izyum. Pare che a conoscenza dei veri piani ci fossero soltanto i collaboratori più stretti del presidente Zelensky. Tutto ciò ha sorpreso l’esercito di Mosca, mal consigliato da quel poco che resta della fitta rete di intelligence russa presente in Ucraina. Le truppe russe si sono ritrovate pertanto impreparate a fronteggiare l’improvvisa offensiva di un avversario che le sovrastava numericamente con un rapporto di 8 a1.

In pochi giorni gli Ucraini sono riusciti a liberare migliaia di chilometri quadrati per un’estensione superiore a quella occupata dai russi nei 5 mesi di guerra precedenti. Il ritiro è stato frettoloso e disordinato, con ingenti perdite di dotazioni e mezzi lasciati sul campo agli ucraini. Il numero di mezzi russi recuperati dall’esercito di Kiev durante la controffensiva è infatti tale che ora l’Ucraina deride il Cremlino, definendolo il loro principale fornitore di armi. La regione di Kharkiv è stata liberata totalmente in una settimana e i soldati ucraini, in alcune zone di campagna, hanno perfino superato il confine con la Russia, entrando nella regione di Belgorod. Alcuni nodi logistici importanti come Kupyansk sono ora sotto il controllo di Kiev, la città di Izyum, che nelle prime settimane del conflitto era stata la sede di una drammatica battaglia poi vinta dai Russi, è ora nuovamente in mano agli ucraini.

Mosca minimizza parlando di ritiro finalizzato al risparmio di vite umane a dispetto di migliaia di caduti ucraini nella controffensiva. Kiev proclama un clamoroso successo e al contrario rapporta perdite russe nella battaglia di Kharkiv per più di 5mila unità. Mentono entrambi. I russi non si sono ritirati strategicamente, ma sono fuggiti lasciando per l’appunto centinaia di mezzi in perfette condizioni in mano agli ucraini. Le perdite di vite umane sono ingenti non solo fra le file russe ma lo sono, in termini forse anche più drammatici, soprattutto per la parte ucraina che paga il prezzo di una massiccia operazione offensiva. Poco sappiamo al momento del reale costo di vite umane dall’inizio del conflitto. Kiev proclama divertita le cifre dei caduti russi e sovente omette le proprie.

La stessa cosa fa Mosca, ancora più criptica, il cui ultimo rapporto ufficiale risale addirittura al 25 Marzo. Su questa voluta e continua omissione di Mosca, i giornalisti del servizio russo della Bbc, sono riusciti a risalire e a pubblicare una serie di dati relativi ai decessi dei militari russi in Ucraina analizzando le sepolture ufficiali dei corpi rientrati in patria. Al 19 agosto, in particolare, sono stati in grado di confermare la morte di 5.701 soldati. Questo dato è ovviamente una minima parte di quello reale.

Gli effetti delle sanzioni

Nel mondo si fa un gran parlare di sanzioni, dopo il biennio covid e la relativa contrapposizione fra favorevoli e contrari alla vaccinazione obbligatoria, ora il confronto si verte fra chi sia a favore e chi no alle sanzioni alla Russia. Si sente molto parlare di effetto nocivo per chi le ha attuate e non per chi le ha subite, ma questa è mistica, mentre la realtà è un’altra cosa. Sicuramente questa guerra è molto costosa per la Russia, ma oltre ai costi militari, le attuali sanzioni stanno causando il più grande shock per l'economia di Mosca dal crollo dell'Unione sovietica del 1991. La banca centrale russa prevede ora che il PIL subirà una contrazione tra il 4% e il 6% nel 2022, rivedendo le previsioni più pessimistiche di inizio conflitto, che stimavano un crollo dell’economia al 10-12%.

Uno studio di un gruppo di ricercatori dell’Università di Yale, sostiene però che i pochi dati pubblicati dal governo russo, su cui si basano le analisi occidentali, siano stati appositamente modificati per evitare le speculazioni nei mercati finanziari. L’economia russa sarebbe quindi in forte sofferenza e anche le entrate dalla vendita di idrocarburi sarebbero crollate, sia per i minori volumi in uscita, sia per i prezzi di favore a cui viene venduto il gas, sia per il rafforzamento del rublo, che con le quotazioni delle materie prime determinate in dollari, gioca beffardamente a sfavore. A prova di questa analisi vi è la notizia che la Gazprom ha cancellato a giugno i dividendi per la prima volta dal 1998. Nessuno discute il fatto che le sanzioni alla Russia non siano salutari all’economia dell’eurozona almeno nel breve periodo, ma negare che stiano bloccando in maniera molto e molto più grave, l’intero sistema produttivo russo, è fuorviante.

Al momento abbiamo dei dati oggettivi solo sulle conseguenze immediate, ma a dispetto dei proclami di alcuni movimenti politici che in piena campagna elettorale strumentalizzano l’emergenza, cavalcando l’emozione popolare, è molto difficile anche per gli analisti economici, stabilire quali possano essere invece gli effetti a lungo termine per tutte le parti in gioco. A mio avviso, superata la crisi degli approvvigionamenti ed il “caro gas”, quest’emergenza avrà almeno un merito – l’aver motivato una revisione benefica e più lungimirante della politica energetica nel nostro paese rispetto a quella adottata negli anni recenti. Mosca continua a risponde alle sanzioni giocando con le saracinesche, cercando di frenare l’economia europea con la riduzione delle forniture di gas ed il conseguente rialzo dei prezzi alla borsa di Amsterdam. Un giochetto già attuato negli ultimi anni, ancor prima della guerra in Ucraina.

Questo sicuramente nuoce all’economia europea e nuoce alle tasche dei cittadini italiani, è innegabile, ma appare un gioco che a dispetto di molte analisi superficiali, non porterebbe giovamento nemmeno a chi lo attua, soprattutto nel lungo termine. La Russia infatti si è alienata il più importante cliente, l’Europa, e riconvertire i flussi in uscita richiede interventi infrastrutturali di alcuni anni. Allo stesso tempo, per motivi tecnici, i russi non possono bloccare le proprie estrazioni e non hanno nemmeno più la possibilità di stoccare il surplus estrattivo. Mosca quindi è costretta a bruciare il gas in avanzo che non riesce a svendere nemmeno a prezzi convenienti ai partners commerciali. Il più importante fra quest’ultimi è proprio la Cina, che ha aumentato del 70% le importazioni provenienti da Mosca, a prezzi di favore. Secondo i dati dell’agenzia statistica russa, citati dal New York Times, il Pil russo sarebbe diminuito del 4% nel secondo trimestre rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Su base annua quindi un calo dell’10-12% per cento nel 2022, appare una stima affidabile.

Per quanto riguarda l’Europa invece, secondo i dati Eurostat pubblicati ad agosto, l’Unione è cresciuta dello 0,6% nel primo trimestre 2022 e ancora dello 0,6% nel secondo trimestre. Nel 2022, la crescita dell’Ue si attesta finora a poco più dell’1,2%, quindi in espansione, seppur limitata dall’emergenza gas. L’Europa, non sta certo traendo beneficio economico dalle sanzioni, questo è palese. Ma le sanzioni non hanno come obiettivo quello di arricchire l’Unione ma bensì quello di colpire l’economia russa, generarvi malcontento e bloccarne l’industria bellica. Questi obiettivi stanno già prendendo forma. Già ora l’aviazione è costretta a cannibalizzare i propri aerei per ottenere i pezzi di ricambio necessari alla manutenzione. Il settore auto sta perfino proponendo vetture nuove senza airbag e ABS e soprattutto l’industria degli armamenti è in forte sofferenza. Mancano infatti materiali fondamentali come cuscinetti e microchip per il settore missilistico.

Mosca non può più produrre aerei o carri armati e Putin è stato costretto a rivolgersi ad India e Corea del Nord per ottenere aiuti militari. In tutto questo contesto a guadagnarci sono gli USA e La Cina, i primi hanno aumentato vertiginosamente le vendite di armi e di idrocarburi, mentre la Cina ha aumentato le importazioni di gas dalla Russia a prezzi di favore e ha aumentato le esportazioni di gas all’Europa a prezzi di mercato. Pare lecito pensare che, per ironia della sorte, il gas arrivi comunque dalla Russia all’Europa tramite la Cina, e a guadagnarci non sia né il venditore né l’acquirente ma bensì l’intermediario. Inoltre per rimanere in tema di beffe, il ministero della Difesa russo utilizza la Gazprombank per pagare gli stipendi all’esercito. L’istituto non è ancora stato inserito nella lista delle banche sanzionate perché serve all’Europa per pagare il gas da cui siamo ancora dipendenti. Quindi, dopo il raggiro del gas russo che arriva comunque in Europa arricchendo la Cina, un’altra beffa, poiché è come se fossimo noi a pagare il salario dei soldati russi in Ucraina che tanto vorremmo frenare.

Le nuove purghe Putiniane

La Russia ha adottato una serie di leggi liberticide per la soppressione di qualsiasi forma di dissenso. Come già noto sono state chiuse radio indipendenti e sciolti movimenti di opposizione extraparlamentari. I giornalisti od i volti dello show business che contestano il governo vengono considerati agenti stranieri, e sono costretti ad emigrare. Non mi soffermo su questo argomento già molto dibattuto fra i media internazionali, ma alcuni casi sono degni di attenzione per il clamore suscitato. L’ultimo caso riguarda il popolare conduttore Maksim Galkin, fuggito all’estero dopo alcune esternazioni critiche e ufficialmente considerato come nemico della nazione. Ma anche nel grigio ambiente dell’alta finanza e dell’oligarchia sta avvenendo una vera e propria purga in stile staliniano. 14 sarebbero infatti, gli oligarchi deceduti in circostanze molto strane, alcune addirittura bizzarre.

Leonid Shulman, 60 anni, capo del servizio di trasporto di Gazprom Invest. Trovato morto nel bagno della sua villa, accanto, un biglietto in cui si lamentava del dolore per una gamba. Vasily Melnikov: 43 anni, Non c’è solo il suo cadavere, ma anche quello della moglie e dei due figli, nel loro appartamento di lusso a Nizhny Novgorod. Vladislav Avaev: 51 anni, vicepresidente di Gazprombank ed ex-funzionario del Cremlino. Anche in questo caso, accanto al suo cadavere nell’appartamento di Mosca ci sono quelli della moglie e di una figlia 13enne. Sergeij Protosenya: 55 anni, top manager di Novatek, secondo colosso dell’energia in Russia dopo Gazprom; un patrimonio personale stimato 400 milioni di euro. Il suo cadavere viene ritrovato insieme a quello della moglie e della figlia 18enne.

Andrei Krukowski, 37 anni, direttore del resort sciistico della Gazprom, muore nel Caucaso caduto da uno scoglio. Alexander Subbotin: 43 anni, ex-ad di Lukoil ma membro del Consiglio di amministrazione. Muore durante un rito sciamanico. Yevgeny Palant: 47 anni, di origine ucraina, proprietario di una compagnia di cellulari. Il suo cadavere nudo è ritrovato vicino a quello della moglie Olga, 50enne, e della 20enne figlia Polina. Yuriy Voronov: 61 anni, Il suo cadavere viene trovato a galleggiare nella piscina della sua lussuosa villa. Ravil Maganov: Vicepresidente e presidente del Consiglio di amministrazione di Lukoil, morto dopo essere «caduto» dalla finestra del sesto piano di quello stesso Ospedale in cui era appena morto Gorbaciov e che è considerato il miglior ospedale del Paese. Ivan Pechorin, 39 anni, uno dei top manager più vicini a Putin, è stato trovato morto pochi giorni fa sull'isola di Russky, nel Mar del Giappone.

Tutta questa situazione che ricorda il regime sovietico staliniano, l’assenza di un dibattito pluralista fra i media, l’incredibile scelta di non ufficializzare da Marzo alcun dato sulle vittime, la decisione di festeggiare a Mosca il giorno della fondazione della capitale con un week end fitto di celebrazioni con tanto di apertura di una ruota panoramica e con un grandioso spettacolo pirotecnico serale, mentre al fronte decine e decine di giovani russi muoiono ogni giorno, inizia ad infastidire anche una popolazione tradizionalmente poco empatica come quella russa.

Il mondo che cambia. I nuovi equilibri geopolitici

Il conflitto in Ucraina sta modificando in tempi rapidissimi gli equilibri fra le grandi potenze, emergono alla luce nuovi protagonisti nello scacchiere internazionale.

- Il forte rinsaldarsi del rapporto USA-Europa, con un imprevedibile rianimazione della NATO che fino a pochi anni fa assomigliava ad un malato terminale, è un’evoluzione recente ed indiscutibile. Vi sono ovviamente tematiche che ancora dividono i paesi membri, soprattutto l’Ungheria, ma l’allargamento a Svezia e Finlandia, tradizionalmente critiche, e la concertazione decisionale con la Svizzera, uscita da una secolare neutralità, sono passi storici in un’Europa mai come prima coesa in una visione estera unita e nella necessità di una difesa comunitaria.

- La Cina che insieme agli USA, è il nuovo protagonista degli equilibri mondiali. La Cina, che ha un ruolo centrale in questo nuovo scenario ed ha un ruolo determinante anche nell’evoluzione del conflitto. Basterebbe una presa di posizione di Pechino contro Mosca per obbligare Putin al ritiro delle sue truppe. Troppa è la dipendenza economica del paese nei confronti della Cina. Pechino ha però mantenuto una posizione volutamente ambigua. Il caso Taiwan e la dottrina di un’unica Cina, sembrerebbero non raccomandare al momento un distacco politico da Mosca, il cui sostegno potrebbe essere comunque importante in futuro. Inoltre l’opportunità di potersi approvvigionare dalla Russia con prezzi di favore, non suggeriscono nemmeno un distacco commerciale. Il recente rafforzamento delle relazioni voluto da Putin non è stato rinnegato infatti da Xi Jinping. Ma la Cina non si schiera esplicitamente. Da un lato evita di condannare Mosca e dall'altro continua a richiamare le parti al dialogo nel rispetto dell'integrità territoriale e della sovranità degli Stati. Finché il conflitto non impatterà sul suo espansionismo e sugli scambi commerciali, Pechino proseguirà con questa politica aperta a molte interpretazioni.

 

Avere un vicino ricco di materie prime e nella disperata situazione di doverle svendere, è un grande affare per i cinesi. Ma anche i rapporti commerciali con Europa ed USA sono estremamente importanti per un’economia che punta tutto sull’internazionalizzazione degli scambi. La Cina quindi continuerà a non prendere una posizione netta a favore né dell’una ne dell’altra parte, ma farà comunque credere a Mosca di esserle vicino. Nel frattempo Pechino è alla ricerca di nuovi mercati e partners commerciali. L’avvicinamento con l’India, dopo decenni di contrasti e tensioni, sono un altro effetto storico di questo conflitto. La Cina e l'India importano energia dalla Russia a basso prezzo, inoltre ora, il 50% degli armamenti indiani viene da Mosca. Nello scacchiere internazionale potrebbe quindi comparire un inedito dualismo, un'alleanza tra India e Cina che faccia razzia delle risorse russe. Sarebbe uno scenario temibile per l’occidente? Non è facile esprimersi ma è possibile che tutto ciò riporti ad un mondo diviso fra due fronti, con una nuova forma di Guerra fredda, dove però a guidare il fronte orientale non sarebbe più Mosca ma bensì Pechino.

- Alla Russia, con un’economia bloccata fra stagnazione e recessione oramai da 10 anni rimane invece il solo spauracchio delle armi nucleari a collocarla fra le potenze politiche e militari del mondo. Mosca, che negli anni ‘90 con Eltsin, e subito dopo con Putin, aveva perfino valutato di entrare nella NATO, è ora isolata dall’occidente ed è costretta a prostrarsi alla Cina e all’India, dal cui scambio commerciale dipenderà economicamente per il prossimo futuro. La Russia inoltre non è mai riuscita ad esercitare una reale attrattiva politico-economica tale da poter organizzare una coalizione alternativa alla NATO. Mosca si ritrova capofila di una esile e poco temibile alleanza militare - l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (OTSC), con Bielorussia, Armenia, Kazakhstan, Tajikistan e Kirghizistan, nella quale però non pare vi sia alcuna collaborazione fra i membri, né identità di vedute. La Bielorussia si è rivelato l’unico paese in grado di supportare il proprio alleato, anche se solo indirettamente, nell’invasione in Ucraina. Il Tajikistan ed il Kirghizistan sono addirittura entrati recentemente in conflitto, sparandosi a vicenda al confine. Il Kazakhstan, dopo esser stato aiutato da Mosca nel sedare le rivolte di piazza dell’anno scorso, si sta politicamente allontanando dalla Russia ed in più occasioni ha ribadito di non voler riconoscere le repubbliche separatiste filorusse del Donbass. L’Armenia che sta entrando ora direttamente in conflitto con il vicino Azerbaijan e chiede aiuto ai propri alleati che, impegnati però in ben altre faccende, non vogliono o non possono intervenire. In quest’ultimo conflitto fra le due repubbliche caucasiche gioca un ruolo da protagonista proprio la Turchia che sta guadagnando ruolo e spazio a livello internazionale.



- La Turchia di Erdogan si sta proponendo ora come unico interlocutore di Putin con l’occidente. Il paese è politicamente e storicamente unito all’Azerbaijan, fornitore quest’ultimo importantissimo, di gas, per l’Italia e per l’Europa. I giacimenti azeri sono infatti ora al centro delle nuove politiche di approvvigionamento del continente, finalizzate all’indipendenza energetica dalla Russia. L’Azerbaijan però, grazie agli introiti derivanti le vendite di materie prime, ha avviato una riforma delle proprie forze armate investendo in esse una considerevole quota del proprio PIL. L’ammodernamento dell’esercito ha consentito allo stato azero di poter assumere un ruolo più autoritario e bellicoso nel Caucaso a discapito dell’Armenia, storica rivale, che non può invece competergli per volume di investimenti. Nel 2020, dopo decenni di tregua armata, la tensione ha raggiunto il proprio sfogo nell’ennesimo conflitto per il Nagorno-Karabah, una piccola regione, de-facto uno stato a riconoscimento limitato, popolato da armeni, autoproclamatesi indipendente dall’Azerbaijan subito dopo lo scioglimento dell’URSS. Gli azeri nel giro di poche settimane sono riusciti a riconquistare tre quarti di quel territorio che per millenni era appartenuto alle popolazioni di lingua armena, costringendo le autorità della regione ad una resa storica, celebrata, quasi solennizzata, sia dalla Turchia sia dall’Azerbaijan, che ora provano a rincarare la dose.

 

In accordo con Ankara, il governo di baku (capitale dell’Azerbaijan) non fa più mistero delle proprie mire espansionistiche, volte a riunificarsi con la regione azera del Nakhchivan, creando così un corridoio che gli collegherebbe direttamente con la Turchia. Un sogno che sia gli azeri, sia i turchi, vorrebbero realizzato da secoli. Erdogan e Alliev (presidente dell’Azerbaijan) sono consapevoli che questo sia un momento propizio. Innanzitutto l’Armenia non può da sola resistere all’Azerbaijan, ma anche se Erevan (capitale armena) chiedesse aiuto a Mosca, invocando l’intervento dell’alleanza militare dell’OTSC, difficilmente qualcuno potrà intervenire. Per tale motivo, ora la tensione è ai massimi storici, e questa volta non fra gli armeni del Nagorno-Karabah e gli azeri, ma direttamente fra Azerbaijan e Armenia, che ora incolpano l’un l’altro di violare confini e trattati di pace. L’Azerbaijan però si sente sicuro di poter affrontare l’Armenia e vuole approfittare dell’attuale debolezza di Mosca. Un problema questo per la Russia, che non vuole e forse non può muovere altre truppe in difesa dell’alleato armeno e che allo stesso tempo però non vuole che la propria alleanza venga screditata.

 

Un problema è Erdogan per la Russia, che da un lato prende a braccetto Putin nei vari bilaterali e dall’altro è per lui una spina nel fianco in Caucaso. Questo conflitto fra due repubbliche così piccole e poco conosciute, sta diventando una vera e propria partita a scacchi fra le potenze del mondo. L’Europa ha bisogno del gas azero e al momento non prende una posizione netta, richiamando unicamente entrambi i paesi alla calma. In Francia però c’è già malcontento fra la numerosa minoranza etnica armena. Gli USA, preoccupati dell’eccessiva ascesa della Turchia nell’arena politica internazionale, hanno appena inviato Nancy Pelosi a Erevan dimostrando il loro sostegno all’Armenia, ma quest’ultima è alleata con la Russia. L’Iran ha ammonito Erdogan e Alliev, sull’inviolabilità dei confini armeni. La Turchia ha più volte ribadito che in caso di aiuto sarà sempre vicina ai fratelli azeri. La Russia invece non prende posizione, troppo delicato il momento, troppo facile sbagliare ma troppo sbagliato non fare niente. Il mondo per le sue stesse scelte sta cambiando, ma la direzione che ha preso non è quella che aveva previsto.



di Manuel Tadiotto

 

 

 


| modificato il:

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