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14 dicembre 2024

Conegliano

Conegliano, gli spiriti inquieti di Ernesto e Gustavo

Padre pittore e figlio filosofo, due personalità complesse e affascinanti che stanno riemergendo dal passato svelando l’eredità culturale della famiglia Mattiuzzi

| Fabio Zanchetta |

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| Fabio Zanchetta |

ernesto mattiuzzi gustavo mattiuzzi

CONEGLIANO - È bastata la bella mostra di dipinti di Ernesto Mattiuzzi “Eros e malinconia”, tenuta recentemente alla Galleria dell’Eremo di Rua di Feletto, per suggerire a molti che parte del patrimonio culturale dell’Alta Marca trevigiana è ancora sommerso e misconosciuto, frammentato tra collezioni private, archivi di famiglia e depositi di musei.

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Ma grazie all’instancabile attività di Mario Mattiuzzi l’eredità del padre pittore e del fratello filosofo sta trovando la strada per svelarsi al territorio. A guardare attentamente la storia di questa famiglia, la condivisione del sapere è una vocazione che emerge periodicamente, in un modo o nell’altro: fu per una cattedra in una scuola locale che Ernesto Mattiuzzi, verso la metà degli anni Quaranta, si trasferì da Venezia a Conegliano. Con lui la moglie Lucia Trillo, di origine padovana, anche lei insegnante e futura centenaria ricordata a lungo e con affetto dagli ex allievi di San Vendemiano e Ogliano.

 

Quasi per destino, il loro primogenito nato nel 1944, Gustavo, diventò uno stimato professore di Lettere al Marco Fanno. Arrivarono poi Gianluigi, studioso di matematica, e infine Mario, il più giovane, che scelse la strada del marketing e che quasi cinquant’anni fa iniziò a spendere le proprie competenze professionali per creare un vero e proprio archivio di famiglia che ancora oggi divulga attraverso innumerevoli iniziative, tra mostre d’arte, pubblicazioni e donazioni. Un impegno lungo e costante, partito da un patrimonio disordinato di scritti lasciati da Ernesto e da Gustavo (manoscritti e dattiloscritti sparsi, che lui stesso definisce “pizzini”) e che solo negli ultimi anni hanno trovato la possibilità di pubblicazione esaustiva in raccolte dedicate sia al pittore e critico d’arte (De Bastiani 2019 e 2020) che al filosofo e saggista (De Bastiani 2019). Come spiega Corrado Castellani, curatore della mostra di Rua e da anni impegnato nel recupero critico del pittore, “Ernesto è stato una figura significativa che ha attraversato il Novecento esplorando il terreno del realismo in modalità diverse, confrontandosi con le sue trasformazioni nel corso del secolo, ma sempre rimanendo fedele allo stesso principio di pittura basata sulla forma e sulla bellezza”.

 

Fu infatti un artista di talento formato all’Accademia di Belle Arti di Venezia e entrato poi a far parte di quegli ambienti, tra la Biennale e Ca’ Pesaro, in cui si guardava alle novità che arrivavano da fuori i confini italiani per rinfrescare il linguaggio della pittura veneta. E nelle opere di Ernesto si trova infatti quella carrellata di immagini comuni alla pittura più interessante del primo novecento in Veneto: Venezia rarefatta e quasi spettrale, ambienti e personaggi dei quartieri popolari descritti con lo sguardo impietoso e cinico dei realisti tedeschi, paesaggi sintetici alla maniera dei neoimpressionisti francesi, ma anche nudi di ispirazione classica e autoritratti surreali e decadenti. Solo che Ernesto, nato nel 1900, era uno dei più giovani realisti tra le due guerre, così, passato anche il secondo conflitto mondiale, si trovò quasi da solo a difendere un’idea di arte a cui non voleva rinunciare ma che velocemente era diventata fuori tempo massimo. Da Conegliano che era ormai la sua casa, “ma con la testa che tornava sempre a Venezia”, come ricorda il figlio Mario, Ernesto si lanciò in un’intensa attività di critico in cui si scagliava contro le nuove avanguardie astratte che andavano per la maggiore alla Biennale, denunciando le intromissioni della politica in un’istituzione che veniva velocemente sottratta agli artisti e data i mano a “burocrati e tecnocrati”. Per la fermezza e la coerenza delle sue posizioni doveva quasi sembrare un Hiiro Onoda locale, un “ultimo giapponese” che rifiuta la resa e continua da solo a combattere una guerra in un mondo che sta andando avanti, ma questa battaglia va vista anche sullo sfondo di un’Italia che cambiava sulle spinte delle opposte influenze culturali dell’America che esportava l’avanguardia astratta e l’arte Pop e dell’Urss che viceversa sosteneva orgogliosamente il realismo socialista. Un contesto questo che rende le parole di Ernesto una preziosa testimonianza di quel periodo da un punto di vista differente da quelli a cui siamo solitamente abituati.

 

Il figlio Gustavo, nato e cresciuto nella provincia che stava così stretta al padre, fu invece una figura atipica di studioso che produceva scritti soprattutto a scopo personale: si interessò assiduamente al dibattito filosofico contemporaneo, partecipò in forma marginale attraverso un numero limitato di recensioni su riviste specializzate, ma sostanzialmente non si adoperò mai per pubblicare la maggior parte della sua produzione di cui era però piuttosto prolifico. “Nessuno conosce tutto quello che ho scritto, in centinaia, migliaia di fogli sparsi” - confessava Gustavo negli stessi fogli – Io desidero solo che dopo la mia morte almeno si conservino tutti questi insignificanti fogli e solo dopo averli letti e valutati, si decida di buttarli nel bidone della spazzatura”. Andò solo in parte in questo modo: dopo la morte, avvenuta improvvisamente nel novembre del 2016, Mario, che in vita lo aveva spesso incoraggiato alla pubblicazione, acquisì tutti quegli scritti buttati giù in un flusso di coscienza e decise di ordinarli per pubblicarli in raccolte che tentavano di definire e rendere giustizia a un intellettuale che pareva trovare soddisfazione principalmente nel dialogo con se stesso, pur avendo posizioni ben definite. “Gustavo non era un solitario come può sembrare dalla sua attività di studioso – racconta Mario – anzi, aveva una vita sociale ricca, frequentava gruppi di amici, tra cui professori, con cui si ritrovava al bar, e l’affetto sincero che provava per queste persone è testimoniato dai necrologi molto sentiti che scrisse quando mancarono. Lui semplicemente non dava importanza all’idea di pubblicare i suoi scritti, gli andavano bene così come li aveva buttati giù”. Due testimoniane così differenti del loro tempo, entrambe a loro modo volutamente ai margini, ma coerenti a se stesse e ferme e che proprio per questo non hanno avuto fino ad ora l’attenzione meritata.

 


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