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19 aprile 2024

Esteri

Come Aylan, il corpicino di Mohammad simbolo della tragedia in Myanmar

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Come Aylan, il corpicino di Mohammad simbolo della tragedia in Myanmar

Un'altra guerra, un'altra piccola vittima. Sedici mesi, faccia affossata nel fango, il piccolo Mohammed Shohayet è morto così, annegato mentre con la famiglia tentava di attraversare un fiume che divide Myanmar e Bangladesh. Alla ricerca di pace, sperando di fuggire dalle violenze subite quotidianamente dai Rohingya, circa un milione di musulmani abitanti del Myanmar a maggioranza buddista che non vengono riconosciuti come cittadini, ma come immigrati bengalesi indesiderati e privati per questo di ogni diritto, nonostante vivano da secoli nello Stato del Rakhine.

 

Mohammed, nemmeno un anno e mezzo di vita, era uno di loro. Come sua madre, suo zio e un fratellino di tre anni, morti anche loro. Una perdita enorme e struggente, che sarebbe passata in silenzio se Zafor, il papà del piccolo, non avesse trovato il coraggio di rendere pubblica l'immagine del corpicino esanime del bimbo sul letto del fiume. Quella di Mohammed è l'immagine di una morte inaccettabile, che ricorda fin troppo la fine di Aylan Kurdi, il rifugiato siriano di tre anni il cui corpo senza vita sulla spiaggia, fotografato dai reporter nel settembre 2015, era diventato il simbolo della crisi migratoria che sta inghiottendo l'Europa.

 

"Quando vedo questa foto - ha detto Zafor Alam alla CNN - sento di voler morire. Per me non ha più senso vivere in questo mondo. Il nostro villaggio è bersagliato dal fuoco degli elicotteri e i soldati birmani ci sparano addosso. Non potevamo rimanere nelle nostre case. Siamo scappati e ci siamo rifugiati nella giungla. I miei nonni sono stati bruciati vivi. Il nostro intero villaggio è stato bruciato. Non è rimasto niente".

 

Zafor si è separato dalla sua famiglia durante la fuga, salvato da un pescatore bengalese mentre a nuoto tentava di attraversare il fiume Naf. La moglie e i figli, in trappola sulla riva del fiume che è ancora in Myanmar, sono morti solo qualche giorno più tardi, proprio mentre Zafor organizzava il viaggio della salvezza per la sua famiglia. Purtroppo invano: "Quando la polizia del Myanmar ha capito che le persone si stavano preparando ad attraversare il fiume, hanno aperto il fuoco. L'uomo che doveva trasportarli in barca ha fatto salire tutti velocemente a bordo per fuggire dal fuoco. La barca era sovraccarica. E poi è affondata".

 

Il 5 dicembre, il giorno successivo, Zafor ha saputo cosa è successo: "Qualcuno mi ha chiamato e mi ha detto che era stato ritrovato il corpo di mio figlio. Ha fatto una foto con il telefonino e me l'ha inviata. Sono rimasto senza parole". "Solo il fiume sa quanti corpi di Rohingya galleggiano nelle sue acque", ha raccontato ancora alla CNN Zafor dal campo profughi di Teknaf, nel sud del Bangladesh, dove l'uomo sta facendo i conti con la tragedia della sua famiglia e del suo popolo. "Io non ho più nessuno. I miei due figli e mia moglie sono morti. E' tutto finito".

 


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