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29 marzo 2024

A Castello Roganzuolo vive un poeta

immagine dell'autore

Luca Barbirati | commenti |

Paolo Steffan

Chissà se è già stato scritto un saggio sulle lettere non spedite, penso sfogliando quelle di Zavattini e quelle di Cardarelli. Chi lo volesse scrivere dovrebbe iniziare da La conversazione continuamente interrotta di Flaiano. Non ricordo l'interprete che recita la parte e veramente non ricordo nemmeno la battuta, ma più o meno dice che al giorno d'oggi (era il 1972!) non è più possibile scrivere lettere perché appena si rilegge ciò che si è scritto al destinatario, si è colti dall'impulso di togliere la data, aggiungere un titolo, la firma e proporlo come racconto a qualche rivista, che spesso è lieta quanto ignara di pubblicare corrispondenza mancata. Tuttavia quelle mie e di Paolo Steffan non sono lettere non spedite, bensì lettere nemmeno scritte. Un anno fa abbiamo iniziato un dialogo continuamente interrotto, ma sempre redivivo, su ciò che più ci appassiona: la vita e la letteratura.

Ed è dalla vita che voglio iniziare, perché quando Steffan scrive di cani randagi, di strade asfaltate e di alberi sradicati, non è sua intenzione difendere il territorio, il paesaggio, la natura, bensì la vita-in-sé che vede umiliata e offesa dallo scempio di un Veneto pasciuto di cotechini, di calcestruzzo e di prosecco. Questo è il paese delle cose che stanno morendo, fa eco Francesco Maino nel suo romanzo d'esordio Cartongesso (Einaudi, 2014). Steffan non è un poeta contadino, non è un ambientalista, in Veneto peggio degli ambientalisti sono solo i comunisti-da-rosticceria. La sua non è una poesia civile e, se pur si appassiona come pochi in guerre di contado, è all'umiliazione della vita che tende, non a questa o a quella amministrazione comunale o vescovile, che dove abita sono ancora la stessa cosa. Steffan non difende un'opinione particolare, né supporta un'invettiva occasionale; la sua amarezza è troppo radicata perché possa essere lenita da qualche piccolo successo o conforto. Parlare di vita riferendosi all'esperienza poetica ed esistenziale di Steffan significa interrogarsi soprattutto sul suo punto estremo, sul margine finale, ossia sulla morte. E nella morte del paesaggio, Steffan ritrova la morte della sua carne, la morte del suo territorio. Gli alberi sono degli alfabeti, dicevano gli antichi greci (anche se io lo apprendo solo da Roland Barthes), e di fatti il Veneto ha optato per la cementificazione e per la ragioneria. Non più alberi, non più alfabeti. Il Veneto non ha bisogno di queste cose. Steffan vive in questa morte, facendo la conta degli ultimi superstiti: qualche vecchio che parla ancora la lengua dei noni, qualche platano o cipresso non ancora abbattuto, qualche angolo di terra non ancora fagocitato da varianti di PRG. È una vita asfittica, lamentosa, randagia, e non mi meraviglia la lettura della poesia Bacàr in cui Steffan vive una metamorfosi bestiale, trasformandosi in un cane bastardo: Ma 'l so bacàr l'é 'l meo, 'l me fià in afàno, / al petàrse de pél sote pìe e zhate. Il paradosso sta nel circolo vizioso della poesia steffaniana, che nasce dalla morte delle cose, e vive come un cancro al fegato, decine e decine di roditori che divorano le sue interiora. È sufficiente leggere la prima strofa del frammento introduttivo per confermare questa diagnosi: L'é stat an parsiutarse / de Nane-Jut-che-i-magna-tut / e de schei 'n sgionfarse / 'ngrasàrse, / an mastegàr fòra tut, / e intànt desmentegàrse / e pó sbrocàrse in rut.

Bacàr, e nella traduzione italiana dello stesso Steffan Ansimi, è il titolo di un'esile raccolta di poesie scritte nel dialetto veneto orientale parlato a Castello Roganzuolo (paese di 2500 persone in provincia di Treviso) stampato dallo stesso Autore in sei copie, su fogli di carta leggera rilegati con un filo di cotone colorato. Steffan non è nuovo a creare certi gioielli grezzi, artigianali, coltivati e raccolti con cura quasi maniacale e poi regalati a pochi amici. Nonostante sia un eclettico autore di centinaia di voci wikipedia, disegnatore, editor di Luciano Cecchinel, studioso della poesia di Zanzotto, credo che Steffan dia il meglio di sé quando scrive nella sua lingua offesa. Forse sarà per un mio gusto macabro legato alla sofferenza, ma Steffan è prima di tutto un poeta. E riconoscersi poeta a San Fior è un'autocondanna all'isolamento, è una condanna alla follia senza appello. Scrive Steffan in Eser zóghen, incó: Ti te séntetu mai tut zhavarà / petà 'nte 'l petadìzh fis de sto visc, / de sto tamài mat che l'è 'l dì d'incò?. Ma la domanda è destinata a non trovare risposta. Non c'è nessun destinatario che può rispondere. Steffan ricorda che si è soli, sempre, tanto nella vita quanto nella morte. Rimbecillirsi, accettare il modello del progresso-decadente veneto (pesticidi, vino, villetta, suv, mogliettina, bar, centro commerciale, outlet, soppressa, infarto) oppure logorarsi i nervi, ansimando, ammattendo, bestemmiando un dio eclissato, in nome di valori forse troppo patetici per poterli esternare senza vergogna.

Ma allora cosa consente di vivere Steffan? Eravamo alla Cerva un anno fa, un ristorante di Vittorio Veneto, e gli chiesi: Tu perché non lo fai? Perché non l'hai ancora fatto? Voglio credere che mi abbia risposto con la poesia Chél che ne resta, la sua ricetta per vivere. In questi versi emerge netto il carattere universale della sua esperienza municipale, e la trascrivo in italiano, nella traduzione dello stesso Steffan: Ci restano allegrie / di pioppi ::: prugni / di viti ::: gelsi / Ci restano il gridare / il vorrei ::: il farei / di un domani leggero. // Ci resta un assaggiare / l'ncanto sincero / di occhi puerili. // […] Ci resta non volere / il fango ::: il vischio / quest'immondizia ::: sterco. // Ci resta da volere / una goccia di amore / Lerciato dal male.

Paolo Steffan, Bacàr (2014)



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