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29 marzo 2024

Valdobbiadene Pieve di Soligo

“Valdobbiadene ha bisogno di ritrovare la sue radici”

L’accorata lettera da cui è nato il comitato per piazza Marconi

| Ingrid Feltrin Jefwa |

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| Ingrid Feltrin Jefwa |

“Valdobbiadene ha bisogno di ritrovare la sue radici”

VALDOBBIADENE – Di recente si costituito, pur se informalmente il Comitato di piazza Marconi a Valdobbiadene, un gruppo di cittadini che intende collaborare con l’Amministrazione comunale affinché la nuova soluzione che verrà adottata per il cuore della città sia la migliore possibile. Al Comitato spontaneo hanno aderito in moltissimi, a riprova di quanto il tema sia sentito a Valdobbiadene dove il Sindaco ha già voluto incontrare i portavoce del gruppo: un ottimo inizio per una collaborazione che si preannuncia proficua. Ma come è nato il Comitato? Tutto è scaturito da una lettera particolarmente accorato ed al contempo fitta di notizie storiche e acute analisi sulla piazza inviata al sindaco e a tutte le forze politiche presenti in consiglio comunale da Giovanna Capretta, pota professionista valdobbiadenese che ha preso a cuore quanto sta accadendo nella sua città. La lettera è stata resa pubblica ed ha scatenato un consenso importante e la determinazione di unire le forze.

 

“Da valdobbiadenese, da tecnico, da cittadina attiva per Valdobbiadene, da amante della cultura e della storia locale, mi rivolgo a voi con spirito di collaborazione, per esprimere le mie perplessità ed il mio disappunto nei confronti del disegno della Piazza risultato vincitore del concorso indetto dall’Amministrazione Comunale, che dovrebbe trasformare il futuro assetto del centro della nostra Valdobbiadene”. Inizia così la lettera di Giovanna Capretta, da cui tutto ha avuto inizio -. Considero il progetto un bel disegno, ideato, però, da chi Valdobbiadene non l’ha mai vissuta, l’ha vista solo da fuori, non la conosce. Un disegno adattabile ad una piazza qualsiasi in quanto equilibrato, ma che priva degli elementi identitari specifici il più importante spazio pubblico valdobbiadenese; un territorio che merita di essere molto più di una mera suddivisione geometrica”. Quindi prosegue: “Avevo personalmente consegnato all’Amministrazione Comunale una serie di immagini e documenti di carattere storico, in modo da fornire un quadro di quello che è stata ed è Valdobbiadene. Questa faceva parte della documentazione di concorso, assieme ai resoconti degli incontri partecipati ed ai documenti tecnici. Con mio grande rammarico devo constatare che da molti progettisti (in primis i classificati) non è stata presa in considerazione con la debita importanza, così come pure dalla giuria la quale, peraltro, deficitava di una rappresentanza locale. Valdobbiadene è un paese il cui corso storico è stato interrotto in maniera violenta cent’anni fa, privato con la forza dei suoi documenti e degli archivi, incendiato, bombardato e ridotto in macerie. Attaccato dal nemico e tradito da chi ha abbandonato la nostra popolazione al suo destino. Una storia la cui linea si è fermata bruscamente nel 1917 facendoci ancor oggi rimanere in uno stato di inquietudine. Questa privazione non è solo estetica; è una mancanza che scorre ancora nelle vene di ognuno di noi valdobbiadenesi: abbiamo lo stesso sangue dei nostri avi che hanno vissuto quel terribile anno di violenza, annientati come uomini e trattati come bestie, cacciati dal luogo natìo, pena la morte. Un grido disperato, che non riesce a trovare la sua pace perché soffocato; ma ancora ardente come la brace sotto la cenere: coperta, ma viva e pronta a ritornare fiamma”.

 

Note storiche e analisi davvero puntuali che proseguono: “L’esigenza di una popolazione violentata è quella di non dimenticare. E non per nostalgia o attaccamento ad un passato tragico, ma per ritrovare quella direzione interrotta, da percorrere con il fine di costruire un futuro solido e vero. Così come il ritrovamento di monete romane sul Cesen ci parla di un passato di 2000 anni fa, o la ricostruzione delle trincee sulla Montagnola non ci fa dimenticare giovani sacrificati nel nome di una Patria che li ha piazzati in prima linea, la testimonianza dei segni è importante e vitale perché consente di tramandare nel tempo il carattere di una popolazione, di un luogo. Non solo: un paese a vocazione turistica come Valdobbiadene, ha il dovere di raccontare di sé: chi è, chi è stato, da dove viene. Non ricostruendo fedelmente ciò che ormai non c’è più (non siamo nostalgici evocatori!), ma valorizzando, senza nascondere, quei segni e quelle caratteristiche appartenenti al nostro territorio, perché solo la conoscenza e la coscienza del passato possono prospettare al futuro. E non c’è “Domani” che non abbia prima chiuso i conti con “Ieri”. Questo concetto è apparso ben chiaro all’Amministrazione Comunale con il lavoro eseguito sugli immobili delle zone agricole: un prontuario che detta delle regole per rispettare l’architettura rurale tradizionale, le sue simmetrie, le sue forme, i materiali, i riferimenti pratici e spirituali che scandivano e tutt’ora scandiscono la vita in campagna o in pianura o in montagna, lontana dai borghi o tanto vicina da udirne il vocìo! Un modo di costruire armonicamente inserito nel territorio circostante, nel rispetto dello stesso, della sua storia, caratterizzandolo addirittura zona per zona, per dare importanza ed unicità alle singole identità. Ed anche lo studio eseguito con il Piano degli Interventi: lo studio dei colori per gli intonaci, per i serramenti, per le finiture… solo a titolo di esempi”. “Mi chiedo: un paese che sta facendo un lavoro così meticolosamente mirato al rispetto del proprio territorio, alla sua valorizzazione da un punto di vista storico ed architettonico, un lavoro che cura, accudisce e “coccola” ogni particolare… perché mai per il centro no? Perché la piazza può essere stravolta e privata così della propria identità? Chi lo dice che l’altezza della settecentesca torre campanaria debba essere compensata? Non può rimanere, come è nata e com’è da 250 anni, protagonista unica ed indiscussa? Perchè cambiare questo equilibrio inserendo elementi estranei? Ma soprattutto: perché la Piazza, “biglietto da visita” del paese, deve mostrare una faccia non sua? La piazza ha una direzione dominante che scandisce quella che è stata ed è ancora, la vita del paese: da Via Garibaldi e Via San Martino a Via Mazzolini (le tre strade più antiche), ovvero: dalla pianura alla montagna. Cioè dalla coltivazione della “campagna biadosa” e dei vigneti, dell’abitato paesano, verso la fienagione, la pastorizia, l’attività della malga. Questo percorso continuo in andata e ritorno scandisce da sempre la vita del paese, le stagioni, l’economia, le tradizioni. Pertanto la direttrice deve forzatamente restare una linea libera, percorribile con la mente e con il cuore oltre che fisicamente; non ostacolata da una triade di cinerari cipressi…”.

 

La lunga lettera quindi prosegue: “Quei cipressi che non appartengono alla nostra flora tipica e che, per antonomasia, hanno lo specifico ed inequivocabile significato di “pace” intesa come riposo eterno, che partono dalle profondità della terra, dove affondano le radici, per lanciarsi in verticale verso il cielo e svettano per giungere a quel Dio che si incontra dopo la vita terrena; che richiedono il religioso silenzio di un santuario e male si inseriscono in un contesto che dovrebbe essere quello vitale di una piazza. Ed a sottolineare questa direzione prepotente esiste ancora, anche se solo sulle mappe, la linea del fronte ovest dei fabbricati ante 1917, degna di essere considerata e valorizzata. Una linea consolidata nel corso dei secoli, che accentua il percorso pianura-montagna e montagna-pianura conferendo alla piazza quella forma ad imbuto che in andata incanala verso la montagna, ed in ritorno dirama e distribuisce verso il paese. Una linea dinamica, come lo scorrere interrato di quell’acqua che ancora una volta scende da Via Mazzolini e, percorrendo una seicentesca canalizzazione, attraversa in diagonale la piazza per continuare lungo la grande vallata attualmente diventata Viale Mazzini. Un’acqua scrosciante, rumorosa, dinamica... non ferma su uno specchio rettangolare come una tomba ai piedi dei tre cipressi, a raso, immobile come una foto ricordo, come una lapide posta in centro ad uno spazio desolatamente svuotato di ogni linea identitaria; ma un’acqua viva e parlante!”. E ancora: “La nostra è una piazza unitaria, così come ogni valdobbiadenese la sente. La prima immagine che viene in mente ad ogni abitante è quella della piazza rappresentata nella foto del 1867: equilibrata, allungata e dinamica. Non una statica suddivisione in quadrati peraltro separati da gradini che, in caso di manifestazioni quali il carnevale valdobbiadenese o la festa di San Gregorio, diventano pericolosi. Il nostro non è un paese “quadrato!”, non lo è mai stato: persino il recinto dell’antico cimitero settecentesco aveva una forma semiesagonale! È un paese frizzante e brioso come il suo vino, un paese che si muove e scorre come le sue numerose rogge, libero ed imprevedibile come l’acqua che scende dalla montagna e sgorga all’improvviso dalle viscere del terreno. Non lo si può arginare in una forma geometrica statica. Sarebbe come rinchiudere un animale libero in una gabbia. La sua prigione”. Quindi le conclusioni: “E il “guardiano della piazza”, il nostro trascurato Endimione, ha proprio il compito di osservare e vigilare sullo spazio fronteggiante. Guarda il campanile, la chiesa, il municipio: superstiti della Grande Guerra. Testimoni di continuità, com’è esso stesso. Il suo sguardo non può e non deve essere celato da alberi, mai esistiti finora. La nuova pavimentazione proposta sembra un cerotto che nasconde una ferita anziché rimarginarla. I giapponesi valorizzano le crepe di un vaso rotto con polvere d’oro o d’argento, perché dall'imperfezione e da una ferita possa nascere una forma ancor maggiore di perfezione estetica ed interiore: la bellezza. Perché il valdobbiadenese vuole riavere la sua amata piazza; non ne vuole un’altra, non vuole una piazza qualsiasi. Non è emerso questo dal percorso partecipato… Il disegno vincitore, colpevole di voler cancellare il centro del paese per la seconda volta dopo cent’anni, evoca le parole dedicate a Venezia da Arnaldo Fusinato… l’ultima ora è venuta, illustre martire, tu sei perduta!”.

 



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Ingrid Feltrin Jefwa

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