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28 marzo 2024

Luigi Cillo e l’arte sacra

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Remo Serafin | commenti |

Presso la sede espositiva di Cappella Maggiore è in corso la mostra “arte sacra”, retrospettiva a soggetto religioso del pittore locale Luigi Cillo.

 

Il titolo è azzardato perché, la “sacralità” e ben lungi da essere attribuita solo perché questo o quell’altro manufatto, magari privi di qualità o di riconoscimento artistico, trovano o potrebbero trovare collocazione in un edificio religioso.

 

In questa esposizione si fanno notare una serie di lugubri pannelli in resina simil-bronzo, destinati probabilmente a qualche mancata struttura funeraria, che una relatrice, facente parte di un folto gruppo di esperte, pure non avendo mai visto né mai sentito parlare del Cillo, colpita da improvvisa e sconvolgente illuminazione, e travolta da “sacro” furore, non esita a paragonare nientemeno che alla Pietà Rondanini e al Giudizio Universale di Michelangelo (!).

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Allievo di Pino Casarini, uno dei più grandi affreschisti del '900 italiano, nonché scultore, illustratore e maestro della tecnica pittorica a guazzo, il Cillo ne aveva inseguito, senza mai raggiungere, le capacità artistiche e figurative, dedicandosi a varie esperienze materiche (ceramica, cemento, resine, pittura su faesite, masonite, legno, ecc.), abbandonando nel tempo anche la forma, avvitandosi in un Impressionismo, offuscato e ripetitivo,  fino ad approdare in un Astrattismo di facile commercializzazione, limitata diffusione e destinato all’oblio, come è accaduto, ingiustamente, anche al pur validissimo Casarini che non è più citato nella «Enciclopedia Biografica Universale» dell'Istituto Treccani, né nella «Enciclopedia Universale dell'Arte» della Garzanti.

 

Vissuto nel periodo fecondo delle avanguardie artistiche, il Cillo non si era accorto che il secolo degli Impressionisti era arrivato al capolinea nei primi decenni del ‘900, rifiutando il linguaggio rivoluzionario dell’Espressionismo dove, all’oggettività dell’Impressionismo stantio che non creava comunicabilità con lo spettatore, poteva opporre la soggettività delle sue capacità figurative che, unite alla ribellione dello spirito, lo avrebbero senz’altro condotto a un diverso riconoscimento.

 

Risultati più che buoni ce ne sono stati: io stesso conservo una sua opera inedita, di soggetto “sacro”, che avevo grandemente apprezzato e che mi aveva donato, ma ad un certo punto, lo spirito e l'anima che dovrebbero essere lo strumento della poetica espressionistica, erano sovrastati da altri variegati problemi, in crescita polemica contro la società, i parenti, i pochi amici e pure contro le istituzioni religiose nonostante le commissioni che gli arrivavano da quel settore.

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A corollario della mostra, è stato inserito un evento mediatico consistente nella inaugurazione del restauro dell’affresco “Ascensione”, eseguito dal Cillo nel 1948 sulla parete di controfacciata della chiesa parrocchiale di Cappella Maggiore, su una superficie di circa 35 mq dei quali la scena ne occupa solo 1/3 mentre il resto è monocromia.

 

L’impianto scenico si può ricondurre agli affreschi eseguiti qualche anno prima, dal Casarini, nell’abside del Duomo di Sacile, ma qui i personaggi che affollano il registro inferiore della superficie dipinta, sono un pot-pourri di citazioni da Edouard Manet, a Claude Monet, a Cezanne, al “Fauvismo” di Manguin ed altri.

Sulla destra un angelo giottesco in solitaria picchiata con le ali chiuse e prossimo a sfracellarsi al suolo, il Cristo, su una improbabile nuvola con il braccio destro di lunghezza metà del sinistro dove la mano sembra un artiglio, il panneggio delle vesti, piatto e banale, senza profondità prospettica e pathos.

 

L’affresco non è mai stato accettato, anzi ne era stata prospettata la sua demolizione ancora durante i lavori.

L’allora parroco Don Agostino Ronchi era contrario alla sua esecuzione, ma alla fine aveva dovuto sottostare alle decisioni del donatore e della Curia.

Al termine dei lavori il contrasto tra il pittore e Don Ronchi era diventato insanabile, e al Cillo veniva vietato, vita natural durante, di rimettere piede sia nella stessa Parrocchiale, sia nella chiesa della SS. Trinità dove il pittore ridipingeva a tempera alcuni affreschi cinquecenteschi nel registro inferiore del lato sinistro dell’abside.

Subito dopo questi fatti il Cillo decideva di emigrare in Brasile dove rimase per alcuni anni dedicandosi ad affrescare chiese ed altri edifici.

 

Nel 1998, in occasione del restauro di tutti gli affreschi della chiesa Parrocchiale di Cappella Maggiore, era stato deciso di non intervenire sulla “Ascensione”, se non per una eventuale leggera spolveratura, data la relativamente breve età del dipinto, ma il pittore si era opposto violentemente temendo l’alterazione dei colori del “suo affresco”.

 

(Tre ditte, approvate dalla Soprintendenza, interpellate per la relativa offerta, dopo le analisi sull’opera, concordarono che si trattava di tecnica mista: affresco, guazzo, tempera e acrilico stesi volutamente a secco per ottenere effetti pittorici simili alla tavola, con finitura superficiale di un agglutinante “acquapasto”).

 

Forse alla veemente reazione del pittore, può avere contribuito la notizia che gli era giunta, circa la demolizione di tutti i suoi affreschi eseguiti in Brasile, e il suo atteggiamento diventava sempre più ombroso ed ostile, ventilando il sospetto di un complotto per demolire anche l’affresco di Cappella Maggiore, segnalando il fatto con lettere deliranti all’allora direttore dell’Ufficio diocesano per l’arte sacra della Curia di Vittorio Veneto, Don Micheli Ossi e alla Soprintendenza.

 

Si può intuire il motivo dell’opposizione: l’attuale intervento ha eliminato lo strato superficiale, applicato proprio per mascherare le innumerevoli imperfezioni che ora sono messe in evidenza e dalle quali si evince che l’affresco non era l’arte migliore del Cillo: si veda ad esempio il viso del Cristo, che presenta strati su strati sovrapposti, o il braccio destro (det.), fatto e rifatto più volte, che tutto può sembrare tranne che affresco. Trattandosi del suo primo tentativo in tale tecnica, non si poteva pretendere di più.

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Comunque, dovrebbe essere lo stato dell'opera d'arte a condizionare la necessità di eseguire o meno un restauro, ma in questo caso si è fatto l’opposto, per altre logiche e altri interessi, con un inutile e dannoso intervento che il Cillo in vita non avrebbe mai approvato, checché ne dica l’organizzatore che infatti ha atteso la dipartita del pittore per questa operazione, non rendendo un buon servizio all’arte e alla interpretazione critica seria e oggettiva dell’opera, presentando una versione edulcorata della sua vicenda artistica, soccombendo alla necessità di compiacere sponsor, parenti e compaesani.

 

Per citare un maestro come Giovanni Urbani, già direttore dell’Istituto Centrale del Restauro, questo è proprio il caso di dire: “il miglior restauro è quello che non si fa“.

 

Il restauro non si dovrebbe vedere, altrimenti scompare la traccia degli aspetti storici, monumentali e artistici, oltre al riflesso del tempo in cui era stata pensata ed eseguita l’opera; è un concetto fin troppo ovvio, ma con l’idea astratta di “riportare all’antico splendore”, si cancella la vera natura esistenziale dell’opera d’arte, qualunque sia, nell'attimo di folgorazione dell’ispirazione e nel momento topico della sua realizzazione.

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L’inaugurazione del “capolavoro” della vita artistica del Cillo, come è stato definito dal curatore (declassando incautamente in tal modo tutta la produzione successiva!), ha monopolizzato l’attenzione sulla parete, come si fosse trattato del muro di una qualunque altra asettica struttura, e poco è stato detto sulle vere motivazioni per le quali tale dipinto è stato realizzato, e quali sono state le conseguenze o le implicazioni artistico-architettoniche nell’edificio sacro.

 

La chiesa parrocchiale di S. Maria Maddalena, nel suo aspetto esterno neoclassico è il risultato dell’ampliamento basilicale effettuato nella seconda metà del XVIII sec. sul corpo ad una sola navata, esistente sul rilievo fortificato, completamente affrescata anche all’esterno di cui rimangono pochi lacerti ed anche poche notizie in quanto la parrocchiale precedente si trovava in luogo diverso.

L'altare principale è un notevole manufatto ligneo del 1709, completamente rivestito in lamina d'oro, attribuito al Pigatti da Colle Umberto (o Ghirlanduzzi da Ceneda), mentre i due altari laterali, uno dei quali presenta stranamente una simbologia riconducibile all’Ordine Teutonico, sono di provenienza incerta, anche se risultano eseguiti/installati tra il 1726 e il 1732 dal cenedese Antonio Minotto.

Nella navata centrale, il trittico affrescato sul soffitto è opera di anonimo di area popolare veneta del XIX sec., mentre i quattro evangelisti nei tondi alle pareti, sono attribuiti a Demetrio Alpago (1870-1908); tutte le superfici affrescate sono rifinite a tempera.

Nel soffitto del presbiterio, il “noli me tangere” è una tempera alla caseina, attribuita all’Alpago mentre i due affreschi alle pareti, molto danneggiati durante il terremoto del ‘36, sono attribuibili ad anonimo del XVII sec. In alto, sulla parete di fondo dell’abside, il “Padre Eterno” è attribuito ad anonimo del XIX sec., sempre in tecnica mista.

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Le chiese (almeno quelle precedenti il Concilio Vaticano II) sono una macchina, un libro aperto, non c’è bisogno di spiegazioni per riconoscere il luogo, i simboli e le funzioni degli spazi dove simmetrie e proporzioni sono calcolate con rigore matematico, certo bisogna possedere un minimo di conoscenza storico-architettonica, ma anche sentimento, ragione e fede.

 

Entrando nella chiesa di Cappella Maggiore si intuisce la dimensione dello spazio pari alla metà esatta di una sfera di 20 metri di diametro, corrispondenti alla misura dei lati del quadrato basilicale per una altezza di 10 metri della navata centrale, voltata a “camorcanna”.

 

Ma ciò che si nota immediatamente è il vuoto della parete di controfacciata causato dalla sparizione della cantoria, una delle caratteristiche delle chiese dell’epoca, e dell’organo, per fare posto alla realizzazione dell’Ascensione.

 

In una sorta di “wreckovation” ante litteram, come accadrà dopo il Concilio Vaticano II, l’organo è stato spostato dietro l’altare maggiore (si tratta di un organo “Pugina”, installato nel 1907 in sostituzione dell’organo antico n. 242 nel catalogo “Callido” installato nel 1787, disperso come pure la cantoria).

 

Lo spostamento non è stato indolore in quanto, oltre alla demolizione della cantoria, il presbiterio ha dovuto subire la modifica dell'impianto originario barocco, e in particolare:

a. Lo spostamento dell’altare verso l’aula, per consentire l’installazione dell’organo sul retro, ha ridotto lo spazio dell’area celebrativa cui è seguita l’inevitabile demolizione della balaustrata esistente tra il presbiterio e l’aula;

b. L’innalzamento dell’altare ligneo, per mascherare gli impianti dell’organo, ha richiesto la posa di alcuni banali gradini marmorei sopra la mensa, con un risultato poco consono all’edificio sacro;

c. La parte superiore delle canne dell’organo ora impediscono parzialmente la visione dell’affresco “Padre Eterno” sulla parete di fondo dell’abside;

d. Il coro ligneo nell’area presbiteriale è stato adattato alla nuova sistemazione, con asportazione e dispersione di parte del materiale.

 

Ma l’aspetto maggiormente negativo di questa operazione, è stata l’alterazione dell’impianto architettonico della chiesa, causato dal tamponamento murario della finestra, con funzione di "oculo", corrispondente alla superficie dove è stato realizzato il Cristo dell’Ascensione (tra l’altro, storicamente, la controfacciata dovrebbe essere deputata alla scena del giudizio universale).

 

L’oculo ha sempre avuto una importante funzione simbolica nelle chiese antiche; è una ruota a raggi che simboleggia, secondo la tradizione cristiana, il dominio di Cristo sulla terra confinando il tempo degli uomini nell'incommensurabilità del tempo di Dio.

 

Essendo poco attrezzato per affrontare questioni teologiche, mi limito ad osservare l’effetto causato dalla ostruzione del particolare architettonico, cioè la chiesa di Cappella Maggiore, orientata esattamente Est-Ovest, è stata privata della luce vespertina del tramonto.

 

L’assenza della luce è poco notata dall’assemblea degli astanti, sempre rivolti "ad crucem" verso Oriente, ma riguarda piuttosto il celebrante che dopo il Concilio II, è rivolto ad Ovest, “versus populum”.

Don Ronchi non si era mai adeguato a tale innovazione, rifiutando di celebrare contro il muro oscurato della controfacciata.

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Attualmente bisogna accettare lo status quo, e nessuno ha intenzione di riaprire la finestra demolendo il Cristo dell’Ascensione (la ipotetica riapertura dell’oculo era una delle ossessioni del Cillo, con missive sconclusionate indirizzate all’allora Vicario vescovile Mons. Poletto). 

Però, tanto per fare un esempio, se in un tardo pomeriggio di autunno, dopo il passaggio di un temporale, per caso ci si trova all’interno del trecentesco Duomo di Spilimbergo UD, si viene colpiti da una luce apocalittica che filtra attraverso n. 7 oculi della facciata Ovest (due dei quali riaperti da poco), che rappresentano la pienezza dello Spirito in azione, tramite, appunto, i sette occhi dell’agnello della visione dell’Apocalisse (AP. 5,6)



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