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28 marzo 2024

Vittorio Veneto

DOVE (A VOLTE) OSANO GLI UOMINI

Toio De Savorgnani ricorda la sua salita del Manaslu

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DOVE (A VOLTE) OSANO GLI UOMINI

Vittorio Veneto - Herman Melville, autore del romanzo Moby Dick, un giorno disse: "Colombo ha terminato il romanzo della terra, nessun nuovo mondo resta all' umanità". Melville si sbagliava, aveva completamente dimenticato i "continenti verticali", i "pilastri della terra": le montagne. Trent'anni fa, un vittoriese, Toio De Savorgnani, uno di questi pilastri, il Manaslu, 8163m di ghiacci, roccia e vento nella catena dell' Himalaya, tentò di scalarlo insieme a cinque compagni, in un’avventura straordinaria. Come gli andò?

Toio, com’è l'idea della scalata del Manaslu?

Tutta colpa della botanica: giovane studente di Scienze Forestali rimasi colpito da una serata organizzata dal C.A.I. , con Giovanni Paoletti. Era il '76, e lui era esperto di didattica naturalistica. Con lui nel '78 ho creduto al progetto del giardino botanico al rifugio Vazzoler conoscendo lassù l'alpinista Lorenzo Mazzarotto. Nasce così, con Lorenzo, Elvio Terin, Marco Simoni, Bruno Di Lenna insieme all'allora sconosciuto Manolo (anni dopo diventerà testimonial Sector-No limits), l'idea di scalare il Manaslu.

Perché quella vetta, l'ottava cima del mondo?

Semplicemente perché il permesso costava molto meno delle altre montagne.

Com’era l’attrezzatura?

Niente ossigeno, le bombole costavano troppo, tende inglesi con intelaiatura esterna, abbigliamento Fila e Tecnoalp, sacchi a pelo di ottima fattura, i "jumar", che gli speleologi della sezione C.A.I di Vittorio Veneto ci avevano procurato, infine una scorta di cibi liofilizzati, dello speck, del grana e molto thè...

Sopra: un'immagine di Toio De Savorgnani al campo base; sotto le dita congelate durante la salita al Manaslu

Quando comincia la scalata?

L'inizio fu complicato, molti giorni per ritirare l'attrezzatura, altri venti di avvicinamento alla vetta, acclimatamento comunque necessario, poi siamo partiti. Il vero signore del Manaslu è il vento, potevamo scalare solo poche ore al giorno, e non senza difficoltà abbiamo raggiunto i 6500m, con un passaggio chiave fatto da una lunga traversata su "canne d'organo" con un canale di ghiaccio finale. L'ultimo balzo lo provò per primo Massarotto, ma un problema allo sherpa Ang Dorge, che l'anno prima aveva scalato l' Everest con Messner, lo costrinse a rientrare.

Con Manolo e Marco Simoni bloccati dal mal di montagna l'ultimo strappo l'abbiamo tentato io e Elvio. Ma nella notte, una slavina scatenata da una tremenda bufera di neve ha sepolto la nostra tenda: ci siamo ritrovati su una parete di settanta gradi, a trenta gradi sotto zero, nel buio totale, senza guanti persi insieme a parte dell'attrezzatura. A quel punto abbiamo iniziato una discesa disperata, riuscendo a raggiungere le altre tende, per poi, con le mani congelate e inutilizzabili, raggiungere il giorno successivo il campo base. Li ci aspettava un elicottero che Manolo scendendo con grandi rischi di notte, aveva fatto chiamare dalla radio del primo villaggio che aveva raggiunto. Messner ci aveva avvertiti: se succede qualcosa non rientrate in Italia, fatevi portare in Austria dove le tecniche di cura per congelamento erano già molto avanzate. Siamo stati portati a Innsbruck dove per tre mesi siamo stati curati.

Toio qualcuno ha detto: "se non sai se puoi fidarti di un amico portalo in montagna..."

Noi abbiamo litigato senza sosta, la tensione era tanta, ma dopo la slavina io avevo ramponi e piccozza, Elvio aveva perso tutto, è stato naturale per me cederli la piccozza, fu naturale per lui, più esperto, guidarmi al campo correndo rischi terribili.

La montagna ci insegna questo: salire e poi lasciare?

Salire, tornare, rischiare per non cambiare nulla se non se stessi, questo insegna la montagna.

"Lieti gli abbattuti dal vento...", lo disse Gesù Cristo. Ripensando alla tua scalata "abbattuta "dal vento e dalla neve,quella vetta mai raggiunta è ricordo di una impresa straordinaria o di una sconfitta?

Io non l'ho mai considerata una sconfitta, Elvio forse sì, anche se il conto da pagare è stato salato, le dita delle mani amputate in ospedale. Non abbiamo raggiunto la vetta ma siamo riusciti nell'impresa di varcare nuovamente una soglia e di essere riusciti a tornare indietro,salvando le nostre vite in condizioni impossibili. Lì ho imparato che la vita è essenzialità, lì ho capito il rispetto per la montagna.. oggi per me è sacro l' Himalaya come il Cansiglio, l'uomo ha bisogno della montagna, non la montagna dell'uomo: l'unico suo dovere è amarla, tutelarla e semplicemente proteggerla.

Paolo Pagotto

 

 

 



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